Si apre oggi un Consiglio europeo in cui si parlerà anche del Piano industriale green presentato dalla Commissione europea la scorsa settimana (il giorno prima della riunione del Consiglio direttivo della Bce) e di riforma del Patto di stabilità. La missione di Robert Habeck e Bruno Le Maire a Washington di martedì, per cercare di “trattare” a nome di tutta l’Ue l’attenuazione delle esternalità negative dell’Inflation reduction act varato dall’Amministrazione Biden, non sembra aver conseguito grandi risultati: è stato raggiunto un accordo che consentirà a Bruxelles di conoscere quali incentivi gli Stati Uniti vareranno in modo da poter prendere misure analoghe. Abbiamo fatto il punto con Massimo D’Antoni, docente di Scienza delle finanze nell’Università di Siena.



Professore, partiamo dalla Bce, che ha alzato i tassi di mezzo punto e ha annunciato che intende fare altrettanto in occasione della prossima riunione del Consiglio direttivo di metà marzo. Non si sa cosa accadrà dopo: da cosa si potrà concretamente capire se l’Eurotower avrà quell’atteggiamento ideologico di cui ci aveva parlato in una precedente intervista?



Nell’intervista cui si riferisce avevo parlato un possibile di attaccamento ideologico all’obiettivo del 2% di inflazione, visto come qualcosa da perseguire a tutti i costi, anche a costo di deprimere la crescita. Nella conferenza stampa la Presidente Lagarde ha riaffermato con parole nette, che per certi versi ricordavano il “whatever it takes” di Draghi, la determinazione della Bce a raggiungere il 2%, aumentando i tassi di interesse in modo significativo e mantenerli in “territorio restrittivo” per quanto è necessario. Non dobbiamo però dimenticare che l’obiettivo della Bce è modificare le aspettative dei mercati, quindi non credo potesse dire niente di diverso. La questione è con quanto pragmatismo si adatteranno le decisioni future della Bce a possibili peggioramenti sul versante dell’occupazione e della crescita e questo lo sapremo solo nel corso dei prossimi mesi. Sul dopo non credo che si possano fare previsioni che non siano azzardate, molto dipenderà dall’efficacia di queste misure. Qualcuno fa notare, però, che i mercati non sembrano prendere troppo sul serio la determinazione della banca centrale e quindi questo spiegherebbe non solo le decisioni ma anche l’annuncio di decisioni future ancora più nette. Legarsi le mani sul futuro, però, è sempre rischioso, perché se poi non fai quanto hai annunciato perdi credibilità.



Intanto il rendimento dei titoli di stato italiano sta crescendo, nonostante uno spread stabile. C’è il rischio che si debbano trovare risorse per nel bilancio pubblico per poter rispettare le previsioni sul deficit formulate a fine 2022?

La risposta da libro di testo sarebbe che se crescono i prezzi e quindi il Pil nominale e le entrate fiscali, un aumento del rendimento nominale non è necessariamente un problema, visto che quello che conta sono i rendimenti reali. Tuttavia, il fatto che l’inflazione sia, in misura significativa, inflazione importata, che non si traduce in un aumento delle entrate, può rappresentare un problema. Non credo tuttavia che la dimensione del problema sia tale da richiedere aggiustamenti rilevanti rispetto alle previsioni.

Sta per cominciare un Consiglio europeo dove uno dei temi sul tavolo sarà aiuti di Stato sì/no, fondo sovrano europeo sì/no. L’Italia rischia di trovarsi ancora una volta in minoranza?

La questione è molto rilevante, forse vale la pena di ricordare da dove nasce e cosa può comportare. Il punto di partenza è il pacchetto di aiuti alle imprese americane annunciato dal Presidente Biden nell’ambito dell’Inflation reducion act, una misura nell’ordine dei 370 miliardi di dollari a favore dell’industria “green” d’oltreoceano. L’Europa, giustamente, vede una tale politica come una minaccia agli scambi e alla competitività dell’industria europea, e intende correre ai ripari. Mentre si parla di un piano europeo, che qualcuno vorrebbe finanziato da emissione di eurobond, l’idea più concreta sul tavolo è quella di rimuovere le restrizioni sugli aiuti di Stato da parte di Governi nazionali dei Paesi membri.

Da più parti si riconosce che un allentamento delle norme sugli aiuti di Stato favorirebbe, come già accaduto dopo la pandemia, Germania e Francia.

Esatto, questo è il punto. Se ognuno va per sé, come vorrebbe un rivitalizzato asse franco-tedesco, a farne le spese sono i Paesi che hanno meno spazio di bilancio e che, anche volendo, non avrebbero la possibilità di aiutare le proprie imprese nella stessa misura dei Paesi con bilanci più solidi. Si capisce, quindi, come l’Italia spinga per una soluzione europea piuttosto che per azioni in ordine sparso, anche se può sembrare paradossale che sia il Governo Meloni a farsi paladino di soluzioni a livello comunitario.

Come si può evitare che altre economie subiscano effetti negativi dalle scelte degli stessi partner Ue?

Il rischio che l’esito sia fortemente asimmetrico tra i diversi Paesi europei è concreto. Per noi la soluzione potrebbe essere quella che richiamavo, un nuovo piano a livello europeo. La Commissione ha annunciato di volersi muovere in questa direzione, ma è ancora tutto molto vago e si parla per lo più di una rimodulazione delle risorse già stanziate per il Recovery plan e altri piani comunitari, non di nuove risorse

Si comincerà anche a parlare di riforma del Patto di stabilità e crescita. Quale, a suo avviso, dovrebbe essere il punto su cui l’Italia dovrebbe maggiormente battersi rispetto alla proposta presentata a novembre dalla Commissione europea?

Sì, c’è anche questa partita e a questo punto dovrebbe essere chiaro che tutto si tiene: regole di bilancio, aiuti di Stato, Pnrr… Sarebbe del resto inaccettabile se prevalesse la linea rigorista sui conti pubblici mentre si consentono deroghe importanti agli aiuti di Stato a livello nazionale, una misura che comprometterebbe il funzionamento del mercato unico. Sulla riforma del Patto di stabilità ci sono diverse criticità. Ci sono indubbiamente degli aspetti positivi, a cominciare dalla presa d’atto dell’insostenibilità della regola del debito, ma nel complesso ci vedo l’impostazione di sempre. A mio avviso la cosa più importante sarebbe per noi la definizione di un sentiero di riduzione del debito non troppo penalizzante e, a livello più generale, l’adozione di parametri sui quali gli Stati abbiano effettivamente controllo, in modo che non sia necessario effettuare correzioni continue perché erano sbagliate le previsioni o perché sono intervenuti fattori esterni.

(Lorenzo Torrisi)

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