C’è voluta una botta d’astuzia per evitare che l’Europa s’impantanasse. Senza l’intesa informale che ha convinto il premier ungherese Orbán a un’assenza strategica nel momento in cui bisognava dare il via libera all’apertura dei negoziati per l’adesione dell’Ucraina il Consiglio europeo che si concluderà oggi sarebbe finito con un clamoroso fallimento.
Il baratto, nemmeno tanto nascosto, è stato con la promesso di sblocco dei fondi di coesione per Budapest, congelati per via della querelle sullo stato di diritto messo sotto stress dalle politiche un po’ troppo autoritarie del governo di Fidesz. Solo così l’Europa ha potuto sventolare un risultato che a Bruxelles si affrettano a definire storico. Ucraina e Moldavia sono più vicini alla famiglia europea, perché anche per Chișinău i negoziati per l’adesione possono cominciare. E anche la Georgia può dirsi soddisfatta, avendo ricevuto lo status di Paese candidato.
In questa decisione i 26 leader europei (Orbán, lo ripetiamo, era andato al bagno, come quando al liceo si tenta di evitare un’interrogazione) hanno dimostrato un considerevole tasso di temerarietà. Difficile non ricordare come Ucraina, Moldavia e Georgia appartengano allo spazio post-sovietico. Difficile non immaginare che la decisione europea possa essere vista come non ostile dal Cremlino. Non solo per l’Ucraina in guerra, ma anche per la Moldavia, di cui fa parte l’enclave filo-russa sostanzialmente indipendente della Transnistria, e soprattutto per la Georgia, Paese del Caucaso che non ha alcuna frontiera terrestre con Paesi dell’Unione e ha pure due regioni in mano ai filo-russi dal 2008, Ossezia del Sud e Abkhazia. E, giusto perché il messaggio fosse ancora più chiaro, il Consiglio UE ha anche approvato il 12esimo pacchetto di sanzioni economiche contro Mosca.
Per quanto riguarda Kiev, fanno sapere dalla delegazione italiana, il sostegno UE è stato ribadito con una formula dal sapore draghiano, “as long as it takes”, cioè fino a quando sarà necessario. Ci vuole fegato anche qui, per una potenza che non è militare, nel gettare il cuore oltre l’ostacolo e sostanzialmente candidatasi a colmare il vuoto strategico che rischia di aprirsi se la Casa Bianca di Joe Biden dovesse rimanere impantanata nelle sabbie mobili del Congresso, non riuscendo a sbloccare quegli aiuti militari che Zelensky è andato a sollecitare sino a Capitol Hill.
Lui, Zelensky, ha ringraziato per primo il presidente francese Macron, e questo già rende chiari i rapporti di forza. Un po’ più nell’ombra sono rimasti tanto Scholz, che con il presidente francese aveva fatto di persona pressioni su Orbán, quanto Meloni, che con il premier ungherese aveva comunque parlato a quattr’occhi.
Per la premier italiana sin qui è stato un vertice molto difficile, ma si sapeva sin dalla vigilia. Perché il nostro governo rema controcorrente, vedendo scarsa attenzione alle sue richieste. MES, riforma del Patto di stabilità, bilancio comunitario, politiche migratorie, sono tantissime le partite che si intersecano. Probabile che la Meloni abbia fatto il punto nottetempo, incontrando Macron e Scholz al bar dell’hotel brussellese in cui le tre delegazioni alloggiano.
Il capitolo più urgente è la riforma del Patto si stabilità, per evitare che da gennaio si torni alle rigide regole pre-pandemia. Per strappare un compromesso accettabile anche dall’Italia le delegazioni dei tre Paesi maggiori si sono sedute allo stesso tavolo di tre “frugali”, Olanda, Svezia e Finlandia. Macron si è mostrato comprensivo come le esigenze del governo italiano di spuntare qualche margine di flessibilità in più. Le trattative continueranno sino all’ultimo. In questi casi le luci nei palazzi europei non si spengono mai. Se ci sarà la tanto agognata fumata bianca, saranno probabilmente i ministri economici, che si riuniranno il 20 dicembre virtualmente per un ECOFIN online, a suggellare l’intesa. Altrimenti si rischia che il dossier torni a gennaio sul tavolo dei leaders, praticamente fuori tempo massimo.
Per Meloni il sentiero è strettissimo. Il veto che ha minacciato è un’arma potente (si veda quanto ha incassato Orbán), ma è una pistola con un colpo solo. Esclusivamente se saprà portare a casa un accordo accettabile avrà dimostrato di non essere isolata in Europa. E a cinque mesi dalle elezioni europee non sarebbe un risultato da poco.
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