La sentenza pubblicata oggi dalla Corte costituzionale riflette in alcuni passaggi il cambiamento culturale seguito in questi anni alla approvazione della legge 164 del 4/04/1982. La legge che consente il cambiamento di sesso nell’ambito di una concezione sostanzialmente binaria della sessualità, ma che ha dovuto, successivamente, confrontarsi con l’affermarsi di una cultura gender, in cui sesso e genere non hanno ancora trovato una loro piena ed armonica integrazione. Con una cultura in cui il principio di autodeterminazione fa da battistrada per ogni decisione che si possa, si voglia e si debba prendere. No di fatto alle imposizioni chirurgiche, per poter ottenere l’accertamento di un cambio di sesso! Ma nello stesso tempo un limite anche al desiderio di muoversi nel solco di una fluidità in cui tutto è permesso, e tutto è preteso, sulla scia lunga del desiderio.



L’articolo 1 della legge 164 prevedeva che la rettificazione di sesso sull’atto di nascita fosse possibile quando si davano alcune condizioni ben precise: l’autorizzazione del Tribunale con sentenza passata in giudicato solo dopo che i caratteri sessuali erano stati già modificati. Al centro della legge del 1982 vi era una attenzione esclusiva alla somiglianza tra bio-anatomia e l’anagrafica della persona interessata. Per la 164/982 la rettificazione del sesso era possibile solo dopo che l’intervento chirurgico aveva modificato le caratteristiche sessuali del soggetto.



I passaggi procedurali e normativi essenziali erano tre: prima di tutto, valutare se l’adeguamento dei caratteri sessuali era essenziale per il soggetto; a questo punto il magistrato disponeva una consulenza tecnica d’ufficio per accertare le condizioni psico-sessuali del soggetto; successivamente, se il parere era positivo, si procedeva all’intervento chirurgico e infine al cambio di registrazione anagrafica. Bisognerà attendere l’art. 31 del Decreto legislativo 150/2011 per limitare questa condizione posta dalla norma, anche se l’operazione chirurgica continuava ad essere richiesta dal Tribunale, “se necessaria”. L’attuale sentenza della Corte dichiara: “inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso). Quindi l’obbligatorietà dell’intervento chirurgico, oggi dichiarata incostituzionale, era già stata resa non-necessaria, ma qualche magistrato si ostinava a ritenerla necessaria, per cui l’attuale sentenza pone limiti a richieste ritenute oggi incostituzionali.



La 164/82, apparsa inizialmente come una legge di grande rilievo, è andata poi cambiando sull’onda lunga delle teorie sul genere, facendo emergere il bisogno di tutelare l’identità di genere, definita sempre più spiccatamente da elementi di carattere psicologico e sociale. Abbiamo assistito lungo questi 40 anni al sostanziale passaggio da un transessualismo a un transgenderismo, come quando l’intervento chirurgico venne dichiarato non necessario, perché bastava il vissuto del soggetto. In una sentenza del 2015, la numero 15138, la Corte di cassazione affermava che la scelta di sottoporsi alla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali non può che essere il risultato di “un processo di autodeterminazione verso l’obiettivo del mutamento di sesso”. Inizia così il principio di autodeterminazione a far valere i suoi diritti nel campo in questione.

Non era tanto importante sapere chi fossi, ma solo capire come mi sentissi. La dimensione oggettiva andava diluendosi nella percezione soggettiva, con una decisa prevalenza dell’opzione fondamentale della prevalenza dell’Io desiderante sul corpo oggettivamente inteso. E mentre la cultura del “genere” si arricchiva di nuove sfumature, in contrasto la cultura del sesso si impoveriva di valori e significati.  Il genere diventava prevalente rispetto al sesso. La soggettività psicologica superava decisamente l’oggettività dei dati anatomici, funzionali, anagrafici: Io sono l’unico criterio determinante per stabilire cosa voglio fare, cosa posso fare, chi voglio diventare. Il tutto presupponeva un percorso psicologico, radicalmente soggettivo, prima ancora che sociale, medico, giuridico. In realtà fuorviante perché sesso e genere o navigano insieme o vanno velocemente allo sbando entrambi.

La sentenza della Corte da un lato conferma la natura sostanzialmente binaria della sessualità umana, e riconosce il diritto ad esprimere un proprio orientamento preferenziale, senza essere obbligato a nessun intervento chirurgico. Emblematico il caso di Federica nel Napoletano, che per altro non avrebbe potuto operarsi per una seria patologia renale, a cui è stato riconosciuto il diritto a diventare Christian, dopo un percorso di discernimento in cui è stato accompagnato da un team di medici, psicologi, sociologi, magistrati…

La sentenza di oggi, ispirandosi ad un noto caso francese dello scorso anno, afferma inoltre che “non esiste un’obbligazione positiva di fonte convenzionale quanto all’impostazione non binaria dei registri di stato civile (Corte EDU, sentenza 31 gennaio 2023, Y. contro Francia). Ossia, il riconoscimento per via giudiziaria di un terzo genere “non binario” non è prevista dalla legge, anche perché potrebbe indurre a modificare l’intero sistema giuridico e sociale italiano in modo non compatibile con i poteri e le attribuzioni di qualsiasi giudice. Non esiste un “terzo sesso”. Il cosiddetto Paradigma binario, riferito alla sessualità, quindi è tutt’altro che tramontato e in un certo senso esce rafforzato dalla sentenza. Tutto questo, se correttamente interpretato e ancor più correttamente applicato dovrebbe porre un limite anche al tema spinoso delle cosiddette “carriere Alias”, riprendendo quanto recentemente affermato dal ministro dell’Istruzione.

A ben leggere però la forza della sentenza sta tutta nel ratificare quanto è già norma, soprattutto a proposito degli interventi chirurgici di cui è venuta meno l’obbligatorietà, come per altro era già previsto dall’evoluzione della legge 164/82: “Deve essere pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011, per irragionevolezza ai sensi dell’art. 3 Cost. (quello che punta soprattutto sulla parità di diritti e sulla non discriminazione), nella parte in cui prescrive l’autorizzazione del tribunale al trattamento medico-chirurgico. In definitiva il Dispositivo della Corte è lapidario: illegittimità costituzionale parziale – inammissibilità.

 

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