Il Presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, non perde l’occasione di sbandierare il Libro Bianco con su scritto il voler trasformare l’Italia, entro il 2030, in un Paese più efficiente e produttivo, con una migliore spesa pubblica e un piano per la riduzione del debito.

Ok, quando riuscirò ad averne copia, saprò cosa si vorrà fare per il Paese. Oddio, son curioso di saper pure cosa vorranno fare per la produttività delle proprie ditte. Per non farla troppo lunga prendiamo di petto, giust’appunto, l’efficienza e la produttività. Prima, nell’evo passato, le imprese, con la produttività, erano riuscite e fare il meglio, magari tagliando il costo del lavoro, rifilando a chi lavora redditi insufficienti per poter acquistare quanto veniva prodotto (i dati di Confcommercio lo certificano: tra il 1979 e il 2013 i redditi disponibili delle famiglie ristagnano), ottenendo il disprezzabile risultato di finire in surplus produttivo; per riparare al danno si aggrapparono a tutte le asimmetrie informative (pubblicità, marketing, moda, credito al consumo, big data e… chi più ne ha, più ne metta!) spendibili e alle politiche monetarie lasche per non far scendere i prezzi.



Ebbri ancor del credito del “produrre la ricchezza”, dimentichi come il fare merci sia, seppur condizione necessaria, nient’affatto sufficiente per generarla; sufficienza che, piaccia o meno, sta in carico alla spesa. Permalosi pure: se dici ma… sei anti-impresa.

Giacché non lo sono, provoco: la pandemia spinge a rivedere i processi innescati dalla globalizzazione aprendo una questione grande così. Le catene globali del valore rischiano di venire squassate con gli annessi profitti degli affiliati alle filiere. Già, proprio quel profitto che, nell’economia lineare e aperta, remunerava il rischio d’impresa, mentre dentro quella circolare e continua intrappola risorse sottraendole alla crescita.



Diamo un’occhiata. Dentro le filiere produttive si trovano ficcati il titolare del prodotto, i fornitori di materie e quelli dei materiali; chi fornisce i macchinari, i designer, nonché quelli della pubblicità e quelli del marketing; ci stanno i fornitori di credito, pure quelli della logistica, giù fino ai commercianti, tutti in credito di rischio che, a compenso, reclamano il profitto. Orbene, rischio per rischio, quale impresa vuol correr quello, con la pandemia, di trovarsi costretto nelle catene di approvvigionamento del vecchio paesello che è tanto bello?

Ci siamo, l’ora batte. Un modo nuovo della produttività s’affaccia: quella interfattoriale. Per schivare la sorte del campanilismo di ritorno, tocca investire il profitto da rischio per remunerare chi, con la spesa, quel rischio lo abbatte. Niente paura: nell’Economia dei consumi, proprio dove l’esercizio dell’acquisto e della consumazione chiudono il cerchio, dando continuità al ciclo produttivo, viene sottratto rischio all’impresa.



Il remunero del rischio, redistribuito per dare sostegno alla domanda, tiene attiva la funzione consumo; per i produttori un investimento che rende efficiente la gestione dei fattori della produzione, garanti dell’utile d’impresa. Se scende il prezzo delle merce si rende competitivo il prodotto, viene rifocillato il potere d’acquisto per poter avere ben più di quel-che-serve-per-vivere associando, insomma, l’acquirente alla “ditta”.

Già, solo con i consumatori, azionisti della filiera, le catene potranno compiutamente approvvigionare il valore sventando pure quelle “catenelle caserecce” che legherebbero chi, proprio nel globo interconnesso, trova prima il meglio tra i multifattori da associare, poi esporta.