I consumi di gas in Europa a novembre sono scesi del 25% rispetto a dodici mesi fa. Il dato è stato commentato dal Financial Times nel quadro di una riduzione della dipendenza dalla Russia sia tramite il ricorso a fornitori alternativi, sia a “cambiamenti che riducono la domanda”. Il mercato funziona e gli elevati prezzi del gas hanno avuto successo e disincentivato il suo uso. Porre la questione in questi termini rischia di produrre un moto di compiacimento per la riduzione dei consumi europei.
Dietro ai compiacimenti per il funzionamento del “mercato” che induce un calo dei consumi di gas si nasconde il crollo dei consumi industriali e il calo dell’attività manifatturiera europea. Il mercato ha successo perché le imprese usano meno gas e comprano meno elettricità per l’impossibilità di sostenere prezzi delle utenze che sono un multiplo di quelli del 2021. È la descrizione di un percorso di deindustrializzazione che appare evidente nei numeri a meno di tre trimestri dall’inizio del conflitto. L’indice dell’attività manifatturiera in Europa (PMI) è passato da circa 58 dei primi tre mesi dell’anno a 47 e questo trend non è un movimento contingente. Più a lungo i prezzi rimangono elevati e si materializzano rischi di blackout, più l’attività manifatturiera si contrae e più diventa impossibile sostenere l’industria europea.
Dietro questi termini asettici si nasconde la chiusura di impianti e di imprese e incrementi della disoccupazione. Siccome la crisi è una specificità europea, sicuramente nella sua dimensione, questo significa il trasferimento permanente di capacità produttiva fuori dall’Europa. Le decisioni di investimento delle imprese che chiudono da una parte e investono centinaia di milioni o miliardi di euro per aprire nuovi impianti in un’altra geografia non vengono rimesse in discussione facilmente.
La crisi energetica è un sinonimo stretto di inflazione sia per i costi delle utenze, sia perché la perdita di capacità produttiva impatta l’offerta e riduce la disponibilità di beni. Questo avviene in un contesto globale di rottura delle catene di fornitura, di fine della globalizzazione e di guerre commerciali. Significa che nessuno può più assumere di trovare sempre e comunque un altro fornitore. Gli esempi di Paesi che bloccano questa o quella esportazione per preservare le catene di fornitura interne o per contenere l’inflazione domestica si sprecano.
Le prospettive che vengono spesso offerte al pubblico, dall’idrogeno al nucleare, non sono una soluzione al problema della fine dell’industria europea perché avrebbero effetti successivi alla deindustrializzazione. Ci si chiede quindi come l’Europa possa combattere una guerra, si spera solo commerciale, senza industrie, con i blackout e l’inflazione fuori controllo perché alimentata da fattori esogeni. La guerra, anche solo commerciale, richiede invece un’economia solida e investimenti per ricostruire capacità manifatturiera. È il caso, per esempio, degli Stati Uniti che annunciano un investimento da 40 miliardi di dollari per una fabbrica di chip in Arizona che sarebbe impossibile se i prezzi dell’elettricità fossero quelli europei.
Il mercato e gli altri prezzi del gas funzionano per ridurre la domanda perché le imprese chiudono. Evviva.
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