Come si è preparata l’Italia all’emergenza Covid? Ma soprattutto lo era? Una risposta arriva dai verbali della task force, inizialmente segreti, poi pubblicati per ordine del Tar del Lazio che ha accolto il ricorso di Galeazzo Bignami, parlamentare di Fratelli d’Italia. Il premier Giuseppe Conte e il ministro della Salute Roberto Speranza ci hanno a lungo rassicurato ad inizio pandemia riguardo la preparazione dell’Italia e il fatto che fossimo pronti ad affrontarla, ma così non era in realtà. Dai verbali emerge invece una iniziale sottovalutazione del rischio e molta confusione riguardo cosa andasse fatto. Inizialmente la priorità era «monitorare gli arrivi da Wuhan» e «mantenere un profilo comunicativo sobrio». Questo quanto emerge dal verbale del 22 gennaio, in cui il ministro Speranza affronta anche il tema dei controlli negli aeroporti, con i voli diretti attenzionati, gli altri no. Un altro aspetto che potrebbe aver inciso nella diffusione del coronavirus. Quindi, come ci si prepara inizialmente all’arrivo del coronavirus? Con 30 termometri a infrarossi e 4 scanner termici da installare a Fiumicino. Il giorno dopo comunque torna sulla questione della comunicazione, sottolineando la «necessità di comunicare adeguatamente la reale portata del fenomeno al fine di non ingenerare nei cittadini confusione e paura ad oggi non giustificate».



CONTE E SPERANZA: “SIAMO PRONTISSIMI”. INVECE…

Anziché concentrarsi sull’organizzazione “difensiva”, ci si limitava a monitorare la situazione nella convinzione che il coronavirus non circolasse nel nostro Paese. Per cui Roberto Speranza si preoccupava di sottolineare la necessità di informare i cittadini «circa la non pericolosità di giocattoli e vestiti “made in China” e sollecitare l’Oms perché confermi che lo stesso valga per gli animali». Poi viene anche chiarita la necessità di creare accessi differenziati per i malati di coronavirus in tutti i pronto soccorso italiani, cosa che non è avvenuta tempestivamente. A parte far partire il monitoraggio, non viene dunque attivato nulla a livello organizzativo. Anzi, lo Stato maggiore della Difesa, intanto, il 24 gennaio abbassa a 5 unità la disponibilità di personale sanitario (5 medici e 5 infermieri) negli aeroporti in caso di emergenza. Il 31 gennaio si registrano i primi due casi, quelli dei due turisti cinesi. Il premier Giuseppe Conte spiega che «non c’è alcun motivo di preoccuparsi», anche perché «siamo prontissimi». Ma in concreto poco cambia. E quando il ministro Speranza torna ad evidenziare la necessità di controlli per le persone che arrivano dall’Asia facendo scalo all’estero era forse già tardi.



MASCHERINE CARENTI MA REGALATE ALLA CINA

Sconcertante col senno di poi l’ottimismo che circolava il 2 febbraio. «L’infezione asintomatica è rara e la trasmissione da parte dei casi asintomatici è rara. Queste situazioni non dovrebbero contribuire alla diffusione del virus in modo continuativo». Due giorni dopo Silvio Brusaferro spiega, come riportato nei verbali della task force, che «le misure di contenimento stanno portando a risultati». Nonostante la convinzione che Sars-CoV-2 non circoli in Italia («È importante precisare che il virus non è arrivato in Italia»), il 6 febbraio l’Istituto superiore di sanità suggerisce di predisporre un piano per l’implementazione dei posti di terapia intensiva. La questione viene sollecitata successivamente dal viceministro Pierpaolo Sileri, ma la Direzione generale programmazione rassicura parlando di una mappatura della rete in corso. Nel frattempo parte una caccia alle mascherine. Ed è questo un altro grave errore. Si riscontra una grave carenza nel reperirle, eppure il 15 febbraio vengono spedite due tonnellate di materiale sanitario, tra cui mascherine, alla Cina. Solo il 15 febbraio si fa menzione per la prima volta del Piano pandemico nazionale. È l’allora direttore della Prevenzione Francesco Paolo Maraglino a sottolineare la necessità di un aggiornamento al documento “risalente al 2009”. Una vicenda delicata che è finita all’interno dell’inchiesta della Procura di Bergamo.



LA NOSTRA DIFESA? I TERMOSCANNER

Ma il 9 febbraio comincia a vacillare l’ottimismo della task force. Gianni Rezza segnala che l’azione di contenimento in Asia non sarebbe del tutto efficace, visto che ci sono casi in Francia. Solo quel giorno chiarisce che serve un piano e bisogna verificare se le strutture ospedaliere italiane sono adeguate. Ben 17 giorni dopo la prima riunione si affronta una questione così delicata. Fino ad allora i termoscanner erano l’unica nostra arma di difesa, con Ippolito dello Spallanzani che ricorda come «l’efficacia ufficialmente riconosciuta del termoscanner è pari al 43%, quindi una percentuale elevata». I media però continuano ad occuparsi del virus, per il ministro Roberto Speranza però lanciano troppi messaggi di allarme. Quindi, l’11 febbraio dà indicazione di «garantire una comunicazione volta a rassicurare la popolazione dopo i messaggi allarmistici comparsi sui TG». Ma il giorno dopo cominciano i problemi. Silvio Brusaferro apprende che in Cina non erano stati conteggiati gli asintomatici e che i numeri erano sottostimati. Ruocco, uno degli specialisti del ministero, afferma: «Non notificare pazienti positivi asintomatici sarebbe gravissimo». Il 16 però torna l’ottimismo e si va avanti con volantini e termoscanner negli aeroporti, poi fa il debutto lo sport sul lavaggio delle mani. Il 18 gennaio si apprende che il coronavirus è alla quinta generazione, quindi in circolazione da diverso tempo, ma cioè anziché preoccupare infonde fiducia. Il 21 febbraio però è il giorno del paziente uno di Codogno.