Fino a tarda sera Giuseppe Conte ha tenuto elevata la tensione con il governo, nel tentativo di alzare un polverone con cui mascherare in qualche modo la sua definitiva sconfitta politica. Se voleva avere ancora voce in capitolo, il leader dei 5 Stelle aveva una sola arma efficace: lasciare l’esecutivo. Cosa che l’ex premier però non ha fatto. Diradata la nebbia creatasi con le dichiarazioni nell’incontro con Mario Draghi e poi nella riunione dei parlamentari, resta ben poco di concreto: un documento con una serie di richieste al governo. Punto. Il presidente del Consiglio si è preso qualche giorno per rispondere. Il resto (la minaccia mai concretizzata di uscire dal governo, la richiesta di discontinuità, l’aizzare i parlamentari, il ritorno alle origini sventolato come bandiera identitaria) è un condimento per nascondere il vero esito del braccio di ferro con Palazzo Chigi, chiaramente sfavorevole a Conte.



Il vincitore di questa tornata si chiama Mario Draghi. Le premesse erano già state poste, ieri il cerchio si è chiuso. Il presidente del Consiglio è riuscito a spaccare il Movimento 5 Stelle, il maggior partito della coalizione di maggioranza, e a garantirsi comunque l’appoggio di tutti i grillini, effettivi e pentiti. Nonostante la scissione di Luigi Di Maio, il governo ha mantenuto i numeri di prima. In più si è assicurato che una frangia di ex pentastellati resterà comunque fedele all’esecutivo. Fino alla nascita di Insieme per il futuro, Conte poteva far valere i numeri dei suoi gruppi parlamentari come spettro sulla tenuta del governo. Ora anche quell’arma di ricatto è venuta meno. E la decisione di non lasciare l’esecutivo lo rende più debole. La sua pattuglia di deputati e senatori vale sempre meno. Viceversa Draghi non perde appoggi e conquista un’altra fetta di sostenitori a oltranza.



È la vittoria del “metodo Draghi”, un sistema collaudato da duemila anni di storia: il “divide et impera” degli antichi Romani. La prima volta aveva funzionato con il centrodestra, che nel periodo del governo Conte 2 era stato compatto all’opposizione ma che all’arrivo sulla scena dell’ex presidente Bce si è diviso: Forza Italia e Lega in maggioranza a sostenere il governo (dopo il no di Mattarella allo scioglimento) e Fratelli d’Italia all’opposizione. Adesso è toccato al M5s, che si è spaccato a metà con la scissione di Di Maio ma senza danneggiare l’esecutivo, anzi paradossalmente rafforzandolo. La tattica del premier è semplice: frantumare le forze politiche restando al suo posto.



A quest’opera di sgretolamento sfugge uno solo tra i grandi partiti, ovvero il Pd di Enrico Letta. Ma quello è l’azionista di riferimento, il partito atlantista ed europeista dotato di elmetto per l’Ucraina e inginocchiatoio per Bruxelles, il perno dell’obiettivo ultimo dei poteri forti: mantenere un sistema di governo non votato da nessuno. Il Pd non verrà coinvolto nell’operazione divisoria, che è destinata esclusivamente ai partiti invisi all’asse Mattarella-Draghi-Letta.

Il prossimo obiettivo è la Lega, da tempo descritta come lacerata al suo interno tra “governisti” e “movimentisti”. Negli ultimi giorni, dopo la sconfitta alle amministrative, pare che il fronte dei governatori del Nord sia sempre più esasperato. Alcuni sono arrivati a ventilare una scissione analoga a quella del M5s. Stavolta però per Draghi sarà più dura: Salvini ha una scorza più temprata di Conte e la Lega è un partito vero, tradizionale, non  un movimento fondato sulla piattaforma Rousseau. L’operazione comunque è scattata.

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