E allora sembra proprio che il professor Conte abbia deciso di porsi alla testa del M5s. Ancora non è del tutto sicuro che lo faccia. Ma si può cominciare a ragionare sulle idee con cui sembra plausibile che lo faccia. Degli intenti con cui Conte si accinge a quest’impresa sono note solo poche parole. Che, però, sembrano alludere ad idee nient’affatto trascurabili: implicano una collocazione sociale abbastanza precisa e un posizionamento politico conseguente.
A quel che si legge sulla stampa a riassumere la concezione che Conte ha maturato del “M5s a venire” è l’idea di un “populismo gentile”, insieme accogliente e intransigente. Già questa non è un’idea da poco: ripropone esplicitamente – e con un coraggio di cui gli va dato atto – una categoria politica, quella del populismo, che, stando alle opinioni più accreditate, sembrerebbe al termine del suo breve percorso ed ormai discreditata.
Ma non è affatto un’idea ingenua. La polarizzazione sociale, da cui il populismo è nato, in questo breve torno di tempo si è solo accresciuta e rimane pesante la “secessione” delle élites sociali (più e prima ancora che di quelle politiche) dal “popolo”: una rete di poteri e relazioni si stende sulle società e relega fasce sempre più consistenti della stratificazione sociale di un tempo in un grande ed indistinto “resto”, dove le differenze si assottigliano e la sensazione di essere alla fine perdenti si diffonde. Le ragioni di quel che si è chiamato populismo sono, dunque, ancora tutte lì. E che qualcuno pensi di raccoglierle in un modo più meditato di come fin qui è avvenuto non può affatto sorprendere. Anzi mostra un’intelligenza politica che analisti di mestiere sembrano avere, invece, smarrito.
Conte, però, sembra si voglia proporre di declinare queste ragioni in modo “gentile”. Ovviamente, questa della “gentilezza” è una connotazione ancora molto generica, forse addirittura coniata dai commenti giornalistici, che così vorrebbero il M5s o quel che ne resta per assottigliarlo vieppiù. Ma forse se ne può capire un po’ di più se si considerano le aggettivazioni, accogliente e intransigente, che, virgolettate, sembrerebbe la accompagnino.
“Accogliente” e “intransigente” costituiscono di per loro un ossimoro e tuttavia detti a proposito di un’idea politica possono anche alludere ad una cosa che, di questi tempi, si mostra nient’affatto scontata, e cioè che la politica non può rinunciare al conflitto e che, però, deve coniugarlo fuori dalle pulsioni di annientamento dell’avversario che in atto lo percorrono. Certo, può anche essere una cosa diversa, ossia solo un alleggerimento del rievocato populismo che ammicca alla comune retorica buonista. La quale, invece, auspica la fine del conflitto e l’estinzione della politica. C’è da augurarsi, però, che non sia così: non tanto per il M5s, ma per la democrazia nel nostro Paese. Un conflitto disarmato e istituito tra idee e progetti ma sempre conflitto è, infatti, la sola via che può togliere l’idea democratica dalle secche in cui si ritrova (non solo nel nostro Paese), che può ripristinare quella democrazia rappresentativa di cui tutti enunciano la crisi ma cui si vorrebbero spesso somministrare rimedi che finirebbero per sopprimerla invece di curarla.
Qualche segno che questo possa essere il disegno di Conte si può, forse, trarre dalle altre poche parole che, sempre virgolettate, la stampa gli attribuisce: “legalità, diritti sociali, delle donne e degli ultimi” contro “diseguaglianze, rendite di posizione e privilegi”.
Certo, legalità e diritti possono sembrare parole tanto generiche che nessuna forza politica si rifiuterebbe di sottoscriverle. Ma giustapposte a diseguaglianze, rendite di posizione e privilegi possono acquistare un significato scriminante e costituire una buona sintesi di quel che ha mosso larga parte degli elettori a votare M5s. Ma, soprattutto, servono ad evocare l’insediamento sociale originario di questa formazione politica ed a ribadirne il riferimento virtuale: ceti medio-piccoli tagliati fuori dalla rete delle relazioni della politica e del potere sociale che ne subiscono le manovre e le contiguità, fasce giovanili marginali, precarie od escluse, nuove povertà e povertà meridionali.
Anche questo potrebbe sembrare un po’ scontato: un modo per provare a recuperare un elettorato che appare abbastanza disilluso e orientato sulla via dell’astensione. Ma Conte sembra volere offrirgli una prospettiva più impegnativa e tutt’altro che secondaria, quando proclama che “l’asse è quello del centro-sinistra”.
Ciò che distingueva il M5s dagli altri populismi, italiani e non, era la sua indeterminazione, l’impossibilità di ricondurlo ad un orientamento riconoscibile: ben al di là del professato superamento della contrapposizione tra destra e sinistra in favore del conflitto tra “dentro” e “fuori” o tra “sopra” e “sotto”. Questo, probabilmente, ne ha consentito la crescita sorprendente nelle elezioni del 2018. Ma ne ha rappresentato anche un limite pesante, perché ha costretto la sua proposta politica a concepirsi essenzialmente come “puntualistica” ed ha imposto alle sue ineludibili alleanze governative carattere “contrattuale”. E soprattutto lo ha privato di quell’analisi sociale ed economica senza della quale non si capisce il mondo, non si possono pensare le società e non se ne possono cogliere i mutamenti e posizionarsi rispetto ad essi. La collocazione del Movimento nell’asse del centro-sinistra supera questo handcap originario e muta (o dovrebbe mutare), bene o male, anche il senso di parole come eguaglianza e contrasto alle rendite di posizione ed ai privilegi: le toglie dallo sfondo molto generico in cui sono prima cresciute e, piaccia o no, le costringe a radicarsi in una qualche analisi della società e dei suoi meccanismi di funzionamento: spinge a pensare i “punti” solo empiricamente individuati di prima dentro un progetto politico che dia loro respiro e prospettiva.
Il collocamento nell’asse del centro-sinistra solleva, però, un problema di posizionamento rispetto al Pd.
L’insediamento sociale e i valori, che così sembrerebbero evocati, non sono molto diversi da quelli che si possono imputare al Pd, sempreché non faccia il percorso inverso e non metta la barra sulla rotta del centro (che inesorabili questioni numeriche fanno facilmente presagire esteso ad un pezzo di destra). E difatti i primissimi sondaggi elettorali sembrano avallare questa profezia “fratricida”: con Conte il M5s tornerebbe a scavalcare la soglia del 20% ma a tutte spese del Pd, che tornerebbe ai livelli del 2018.
Queste prime proiezioni non sono, però, molto significative: l’aspirazione tanto del M5s che del Pd (almeno per come fino ad oggi ha mostrato di volersi muovere) è quella di conquistare la maggioranza degli elettori e, perciò, si può pensare che per entrambi vi sia (o vi sarebbe) lo spazio per risultati soddisfacenti. Questo, però, non significa che non si ponga (o non si porrà) egualmente un problema di posizionamento reciproco. Ma anche su questo terreno a Conte vengono riferite, sempre tra virgolette, parole che potrebbero suggerire un qualche ragionevole assestamento, quando assegna al M5s il compito di “non subire le lobby che hanno influenza sul centro-sinistra”.
Queste parole potrebbero volere riproporre la vecchia lettura che il Movimento dava del Pd come partito dell’establishment. Questa lettura non era affatto infondata quando si rivolgeva al partito di Renzi. Ma appare improponibile rispetto al partito che Zingaretti sembra (anzi, sembrava) intenzionato a rifondare e, soprattutto, rispetto ad un partito con il quale si vorrebbe stipulare un’alleanza di prospettiva.
Un altro senso, tuttavia, ad esse si può dare, un senso invece costruttivo: quello che il Pd per il suo stesso radicamento storico, soprattutto nei ceti produttivi dell’Emilia-Romagna, della Toscana e del Centro-Nord e nell’intellettualità più progressiva delle università, dei mass-media (almeno di quelli più decentrati rispetto alla rete dei poteri sociali) e della stessa produzione, rimane inevitabilmente esposto alle ragioni della crescita “costi quel che costi” ed a quelle della primazia dei diritti civili sui diritti sociali, che rispettivamente in questi ambiti possono trovare udienza, e che, perciò, al “populismo gentile” del M5s rimane il compito cruciale di rappresentare, e dar peso a, sensibilità, aspirazioni e sollecitazioni che queste ragioni, anche involontariamente, potrebbero far sottovalutare.
Mentre a Leu (se non dovesse confluire – cosa che potrebbe sembrare auspicabile – in una sinistra allargata) spetterebbe di legare queste due anime nella continuità con le ragioni della sinistra.
Può essere che questi ragionamenti attribuiscano a Conte pensieri che non ha ancora formulato. Ma essi corrisponderebbero al verso in cui potrebbero (o avrebbero potuto) andare le cose. E, soprattutto, spiegano l’attacco feroce che i mass-media influenti hanno intrapreso contro Zingaretti e che, raccolto prontamente dalle correnti renziane, lo hanno ora costretto alle dimissioni.
Quest’attacco ha ragioni che risalgono indietro nel tempo e che cominciano già con la defenestrazione di Bersani. Come allora anche ora, Renzi è solo l’esecutore di un disegno che lo trascende e che ha la sua arma migliore nella carta stampata e nelle reti tv, private e pubbliche. Solo gli stupidi non hanno capito che il governo Conte ne era solo il primo bersaglio e che, invece, il vero obbiettivo era Zingaretti ed il Pd: quel che questo disegno persegue è, infatti, la ricollocazione del Pd dentro un’alleanza di centro inclusiva di una Lega riconvertita da Giorgetti e, solo come dessert, l’emarginazione del M5s dentro un’opposizione massimalista e protestataria.
Questo produrrà quel che Renzi si è esplicitamente auspicato, e cioè lo svuotamento tanto identitario che elettorale del Pd. Che a Renzi ed ai suoi mandanti interessa molto poco, visto che con dentro la Lega i numeri per il loro centro(-destra) ci saranno egualmente. Ma interessa il Pd, interessa il Paese, poiché così tramonta (o si vorrebbe che tramonti) la prospettiva di un’Italia che prenda a coniugare crescita e solidarietà, e, da ultimo, interessa lo stesso M5s perché da ciò dipende, alla fine, la sua collocazione politica.
Non è detto che questo disegno prevalga. Ma quel che è certo è che la partita di Conte si gioca dentro il Pd. E se vuole giocarla realmente, Conte deve innanzitutto ricompattare il M5s (spazzando il campo dalle miopi espulsioni che una dirigenza imbarazzante aveva messo all’ordine del giorno) e interrogarsi sulla sua permanenza in un governo che senza la sponda di Zingaretti (e perciò quando dovesse venir meno la prospettiva di non confondere più la lealtà con la remissività e di dar peso alle ragioni della precedente alleanza) è di sicuro un’altra cosa.