Nel bollettino della Banca centrale europea è contenuta un’analisi sugli effetti dei rincari energetici sui risparmi delle famiglie: il 20% di esse riduce di molto il proprio risparmio per far fronte agli aumenti imprevisti delle bollette oppure si trova costretta a ritardare i pagamenti.
Uno scenario che fa il paio con quello prospettato a inizio settimana dal Sole 24 Ore: 5 milioni di famiglie italiane, quelle con redditi annui fino a 21.000 euro, a causa degli aumenti dei prezzi energetici e alimentari, si ritrovano con uscite annuali superiori alle entrate. «Va detto che in effetti l’accelerazione dell’inflazione è un fenomeno che ha conseguenze molto differenziate all’interno dell’Eurozona», ci spiega tra le altre cose Luigi Campiglio, Professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano, commentando questi dati.
Ci può fare un esempio?
In alcuni Paesi, non solo l’Italia, ma anche la Germania, si nota una maggiore sensibilità nella capacità di consumo e di spesa rispetto alla principale causa dell’aumento del tasso di inflazione: i prezzi dell’energia. Mi sono anche chiesto quale potesse essere una spiegazione di questo fenomeno, soprattutto in Germania e la risposta che mi sono dato è che si tratta di un Paese molto sensibile a tutto ciò che riguarda il settore manifatturiero. Tra l’altro se oggi a Berlino si registra una dinamica inflazionistica lievemente superiore alla nostra, questa non è per noi una buona notizia, perché significa che l’economia tedesca sta decelerando e ne subiremo i contraccolpi. C’è poi un altro fattore da non trascurare.
Quale?
Anche negli Stati Uniti c’è un tasso di inflazione elevato, ma insieme a un significativo aumento dei salari. Ho invece l’impressione che in Europa la diminuzione del potere d’acquisto sia il segnale di una difficoltà per i redditi di stare al passo con l’inflazione. Negli Usa c’è un’economia surriscaldata, le retribuzioni aumentano di conseguenza anche perché per alcune mansioni c’è difficoltà a trovare impiegati. Una situazione molto diversa da quella dell’Italia, della Francia o della Germania. In Europa l’economia rallenta a causa anche del progressivo aumento di un’inflazione che è principalmente importata.
In effetti, più aumenta il prezzo dell’energia, prodotta con materie prime importate, più l’economia rallenta.
Esatto. Gli Stati Uniti sono indubbiamente messi meglio nell’approvvigionamento energetico e lo si vede anche dallo sforzo disperato che ora si sta facendo da noi per cercare di realizzare in pochi mesi quello che non si è riusciti a fare negli ultimi decenni. Non è però che le alternative al gas russo, anche a livello di prezzo, si possano improvvisare.
Il Sole 24 Ore ricorda che per le famiglie italiane non c’è solo il problema energia, ma anche quello alimentare. Insieme rappresentano più di un terzo dei consumi totali per le fasce più deboli e si tratta anche di consumi che possono essere ridotti solo fino a un certo punto…
Colpisce la fragilità di queste famiglie a basso reddito rispetto ad aumenti del tasso di inflazione che sono sì “anomali”, ma non ancora “esplosivi”. Tra l’altro le spese per i beni alimentari non sono “stagionali” come può esserlo la bolletta per il riscaldamento della casa. Se anche non si finisce indebitati, ma si riesce a far quadrare i conti tagliando altri consumi vuole dire comunque che queste famiglie stanno raschiando il fondo del barile. E non dobbiamo trascurare quelli che possono essere gli effetti di un clima di aspettative che porta a un aumento dei prezzi generalizzato non del tutto giustificato. Non manca, infatti, chi alza i propri prezzi perché lo fanno tutti gli altri. C’è da sperare che questo fenomeno resti contenuto e non si autoalimenti. Resta il fatto che gli effetti dell’inflazione sui consumi fanno emergere un’altra differenza tra Stati Uniti ed Europa.
Di che cosa si tratta?
Negli Stati Uniti c’è aumento importante dei prezzi dei beni durevoli e questo non mette così tanto in difficoltà le famiglie più deboli come invece accade da noi. A parità di inflazione, è cosa diversa se aumentano i prezzi dei cellulari o delle televisioni piuttosto che quelli della pasta e del pane. Tra le due sponde dell’Atlantico c’è quindi un dato comune, la pressione inflazionistica, ma una diversificazione del tasso di aumento dei prezzi per grandi settori che è differente e che genera conseguenze diverse sulle famiglie.
Quali soluzioni andrebbero messe in campo per far fronte a questa situazione? Lei diceva che i redditi non tengono il passo dell’inflazione: vanno allora aumentati oppure, tramite tagli fiscali, si devono ridurre i prezzi di beni energetici e alimentari?
I tagli fiscali possono andare sicuramente bene, purché i produttori e i distributori, soprattutto per quel che riguarda i beni alimentari, non “assorbano” parte di questa riduzione con aumenti dei prezzi: tutto lo sconto fiscale, cioè, deve essere trasferito al consumatore finale. Quello che poi serve, soprattutto in Italia, è il lavoro, ma con una sorta di deterrente per evitare che i redditi diminuiscano. So che i sindacati hanno la funzione di tutelare i salari, ma se quest’ultimi sono così “bassi” occorre una qualche forma di garanzia ulteriore. Potrebbe essere qualcosa di simile al salario minimo legale, magari come misura temporanea per far fronte alla contingenza particolarmente negativa.
(Lorenzo Torrisi)
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