In queste settimane è stata presentata un’interessante ricerca di Manageritalia sul settore dei servizi. La “notizia” un po’ inquietante ma non sorprendente della ricerca è che l’export di servizi “Made in Italy”, fra cui l’Ict, è molto debole (salvo il turismo….) e la bilancia commerciale quindi molto svantaggiosa (si comprano molti più servizi dall’estero di quanti se ne vendano). Essendo le economie moderne al 70% (mal contato) fatte di servizi (Ict, consulenza, assicurazioni, servizi finanziari, grande distribuzione, servizi professionali. ecc.), si aggiunge un tassello importante all’analisi su cosa non funziona nel nostro Paese e sul perché il Pil non cresce.
È evidente che molte aziende di servizi italiane si giovano della protezione normativa, e delle specificità del mercato interno (presumibilmente scaricando degli extra costi sul cliente), ma non riescono a competere su mercati “competitivi”. Una menzione a parte merita il tema “digitale” sia come settore che come tecnologia che ha impatti sui vari settori.
In questo settore la competizione sarà ancora più pressante ed è probabile che il lavoro possa spostarsi dove è più produttivo come segnala questa ricerca della Tony Blair Foundation.
Cosa fare? La mentalità sbagliata porterebbe a pensare che il lavoro da remoto vada bloccato perché ci ruberà il lavoro. Quello che bisogna fare è invece incentivare ogni azienda perché utilizzando lavoro digitale diventi più competitiva fornendo migliori servizi, pagando più tasse e quindi migliori politiche sociali.
Da qualche mese discutiamo quindi con giuslavoristi, rappresentanti dei lavoratori, associazioni di categoria, imprenditori e startupper l’idea di costruire un contratto collettivo per il Lavoro digitale e una regolazione ad hoc per questo tipo di lavoro. Le startup e il mondo dell’innovazione sono infatti i destinatari naturali di questa regolazione, strategica per costruire una vera industria nazionale in questo settore.
Perché lavorare a un progetto del genere?
1) Seppur non posso approfondire i dettagli in questa sede ho tutti gli elementi per credere che un nuovo contratto possa consentire una migliore risposta agli interessi di aziende, lavoratori e società.
2) Il diritto del lavoro italiano è chiaramente costruito su situazioni oggi non del tutto realistiche e va modernizzato senza rinunciare all’equilibrio tra produttività e tutele.
3) È possibile isolare chiaramente questa forma di lavoro da quelle più tradizionali come cerco di spiegare in questo articolo.
4) Il mercato del lavoro nei servizi e nel lavoro digitale è abbastanza diverso da quello nell’industria e molto più labour intensive. È abbastanza difficile pensare di competere su scala globale se non con un intervento sistemico sul mercato del lavoro nel complesso.
Rispondo anche brevemente alle prime considerazioni “ostative”.
1) Non bastano i contratti attuali perché, per esempio, non sciolgono i temi legati alla sovrapposizione tra autonomia e subordinazione, il tema della retribuzione legata al risultato e non alle ore di lavoro e l’esigenza di formazione continua.
2) Chi già in passato svolgeva lavori remotizzabili potrà decidere in accordo con il proprio datore se “ricadere” nei contratti di lavoro tradizionali o nel contratto digitale.
3) Andrebbe ridotto il numero dei Ccnl esistenti, ma c’è più differenza tra il lavoratore di un bar e quello di un data analyst che tra quello di un impiegato del settore bancario e uno delle telecomunicazioni.
4) Alcune modifiche al codice civile e in ambito fiscale saranno necessarie per modificare sostanzialmente la pratica del lavoro.
Credo sia il momento di pensare in modo lungimirante, sistemico, con uno sforzo collettivo, rifiutando la tendenza a gestire il day by day con strumenti non del tutto ottimali. Intervenire sul mercato del lavoro è fondamentale per il settore dei servizi e ancora di più per quello digitale. L’obiettivo è rendere competitiva la nostra economia fornendo i corretti incentivi a chi lavora e alle imprese.
Per farlo le politiche attive da sole non bastano e gli investimenti del Pnrr rischiano di essere acqua che finisce nello scolapasta dell’economia dei servizi.
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