Quarant’anni fa, il giorno di San Valentino, si realizzò uno dei migliori incontri fra prassi e teoria economica. Se vogliamo dare il riferimento teorico, fu grazie all’applicazione degli studi e dei consigli di Ezio Tarantelli, martirizzato dalle Brigate rosse proprio per il suo impegno a fianco delle organizzazioni dei lavoratori, che si riuscì a realizzare un patto promosso dai sindacati dei lavoratorio che cambiò l’andamento economico del Paese.
Era periodo di grande inflazione. Lo strumento della scala mobile assicurava il recupero del valore reale dei salari con due effetti che nel tempo diventavano negativi. Da un lato, assicurava un recupero che appiattiva i differenziali salariali con un effetto apparentemente egualitario che era punitivo per le figure più professionalizzate. D’altro canto, il recupero dei salari reali aveva innescato una continua rincorsa dei prezzi che che metteva in crisi i meccanismi della crescita economica con la penalizzazione dell’occupazione e degli investimenti.
La spinta che veniva dalla attività di Tarantelli, professore universitario e militante perché impegnato con il centro studi Cisl e con i centri di ricerca economica del Pci, era che toccava alle rappresentanze dei lavoratori avanzare la proposta di un patto che rimettesse in ordine i fondamentali macroeconomici del Paese per riprendere la via dello sviluppo e tutelare l’obiettivo della piena occupazione. Lo scambio passa alla storia come l’accettazione del taglio della crescita della scala mobile. In realtà, questo tassello serve per raffreddare la spirale di crescita prezzi salari cambiando le aspettative dell’inflazione, ciò permette di abbassare i tassi di interesse e favorire la ripresa degli investimenti. Il recupero salariale e la ripresa dell’occupazione erano sostenute da interventi fiscali e dagli investimenti pubblici.
Il patto fu approvato da un referendum popolare che confermò la giustezza della scelta del Governo di allora, ma soprattutto il coraggio dei sindacati che portarono avanti l’iniziativa. Fu un’iniziativa sindacale unitaria fino al penultimo minuto. Quando si arrivò al dunque il patto venne approvato dalla Cisl e dalla Uil e dalla componente socialista della Cgil. La maggioranza comunista del sindacato più numeroso decise per il no perché richiamata dal partito al principio che le scelte politiche toccano alla politica e in questi casi il sindacato non è autonomo ma subalterno.
Come annotazione personale posso dire che quella fu l’esplicitazione che l’evoluzione del Pci verso posizioni socialiste, partito di governo e autonomia delle organizzazioni dei lavoratori, era molto difficile e portò alcuni giovani a impegnarsi di più sul versante dell’unità socialista.
Ciò che rileva oggi di quella vicenda è però il confronto fra il ruolo che il sindacato riuscì a giocare come protagonista delle decisioni di politica economica nazionale e la situazione attuale. Certo era stagione di un clima di unità sindacale molto migliore di quella odierna, ma i problemi che riguardano le scelte di politica economica e che impattano sulla vita dei lavoratori sono altrettanto pesanti.
La questione dei salari e l’impatto sulla crescita dovuta al contenimento di consumi e investimenti è davanti agli occhi di tutti. Le affermazioni del Governatore della Banca d’Italia hanno avuto il pregio di ricordare che le variabili economiche si tengono tra loro. Una crescita dell’occupazione trainata da bassi salari e demografia calante non indica un’economia in salute, ma una crisi che rischia di avvitarci in un periodo di ulteriore divisione del Paese. Siamo già passati per un periodo di dualismo fra fasce di lavoratori protetti e di lavoratori precari. Oggi, pur con meno precariato, crescono settori a bassissima produttività che reggono con il lavoro povero, quello che assicura un salario al di sotto del costo della vita.
La risposta non è la legislazione sul salario minimo. Il problema è il giusto salario e non può venire che da interventi macroeconomici che mettano al centro degli investimenti di questo periodo, con i fondi Pnrr, l’aumento della produttività del sistema Italia a partire dal terziario e dalla Pubblica amministrazione.
Nello stesso tempo abbiamo avuto alcuni interventi della magistratura che, sulla base dell’interpretazione della Costituzione, hanno determinato per via giudiziaria, il giusto compenso. Le decisioni giudiziarie hanno così messo in discussione la necessità di un intervento legislativo che fissi il riconoscimento dei contratti nazionali più rappresentativi. Da qui verrebbe il valore universale dei salari e dei diritti e tutele contrattuali che possono essere applicati alle diverse categorie professionali.
Si pongono, quindi, due problemi che sono da ritenersi fondamentali per qualsiasi organizzazione sindacale. In primo luogo, come difendere la crescita salariale coniugandola con l’obiettivo della piena occupazione. Segue, e logicamente in quanto fondamento della libertà sindacale è addirittura prioritario, il tema delle regole del riconoscimento della contrattazione nazionale.
Questi due temi richiedono lo sforzo di tornare ad avere una reale capacità di elaborazione unitaria almeno delle piattaforme che riguardano i fondamenti della vita del sindacato. Se non immediatamente su posizioni comuni si deve almeno valutare assieme la priorità da dare a questi temi per un confronto ravvicinato con il Governo e con le rappresentanze delle imprese.
Dentro a una nuova elaborazione sulla contrattazione verranno poi elaborate altre iniziative per rafforzare il rispetto delle scadenze per i rinnovi contrattuali e per la tutela dei salari reali anche in assenza del rinnovo contrattuale complessivo. La spinta per la contrattazione di secondo livello, aziendale e territoriale, è poi indispensabile per una distribuzione della crescita della produttività anche al contributo dato dai lavoratori.
La lezione di Tarantelli e il riprendere i suoi scritti che portarono al grande accordo del 1984 possono essere guida per pensare un modello di proposta unitaria del sindacato capace di essere all’altezza delle sfide dell’oggi.
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