Dal 5 maggio è in vigore il d.l. n. 48/2023, con cui il Governo modifica, tra l’altro, la disciplina del contratto a termine in una prospettiva di allargamento delle sue condizioni d’utilizzo, dopo la stretta apportata dal primo Governo Conte con il c.d. Decreto dignità del 2018.
Quest’ultimo, modificando l’art. 19, d.lgs. n. 81/2015, ha ridotto da 36 a 24 mesi, anche non continuativi, la durata complessiva di tale contratto, ne ha consentito la libera stipulazione per un massimo di 12 mesi e subordinato la legittimità delle proroghe o dei rinnovi successivi al primo contratto (anche ove inferiore ad un anno) per gli ulteriori 12 mesi all’esistenza di: a) esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività; b) esigenze di sostituzione di altri lavoratori; c) esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria. Si tratta di condizioni particolarmente restrittive, tanto che la legislazione del periodo pandemico ne aveva già previsto un allentamento temporaneo (fino al 30 settembre 2022), attribuendo ai contratti collettivi di cui all’art. 51, d.lgs. n. 81/2015 la facoltà di individuare altre “specifiche esigenze”, legittimanti l’apposizione del termine.
Ora, l’art. 24 interviene nuovamente sull’art. 19, d.lgs. n. 81/2015, senza, tuttavia, stravolgerne l’impianto disegnato dal Decreto Dignità. Non si torna al contratto privo di causale (o della successione di contratti) nel limite di una durata massima. Restano confermate la soglia di norma invalicabile dei 24 mesi, la possibilità di un primo contratto acausale non superiore a un anno e del prolungamento per altri 12 mesi solo in presenza delle condizioni stabilite dalla legge.
Ciò che cambia è la modalità con cui queste sono individuate. Ferma l’ipotesi di “sostituzione di altri lavoratori”, quelle di cui alle lett. a) e c) sopra richiamate vengono meno, mentre ai “contratti collettivi di cui all’art. 51” è attribuita in via esclusiva la facoltà di individuare, non più le “specifiche esigenze”, bensì i “casi” che consentono l’apposizione del termine al contratto. Come è noto, l’art. 51 richiama i contratti “nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria”.
Che accade, però, se questi contratti collettivi non provvedono? La legge rimanda alle condizioni “nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 30 aprile 2024, per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti”, recuperando la formula già utilizzata dal d.lgs. n. 368/2001. Il dato certo è la possibilità, in via transitoria, che datore di lavoro e lavoratore definiscano consensualmente l’esigenza tecnica, organizzativa o produttiva. Non è chiaro, invece, se il riferimento “ai contratti collettivi applicati in azienda” voglia consentire, sempre in via transitoria, ad accordi nazionali o aziendali stipulati con organizzazione dei lavoratori prive del requisito di rappresentatività richiesto dall’art. 51, di individuare i casi legittimanti l’apposizione del termine al contratto.
Così delineate le novità legislative, alcune valutazioni finali.
È condivisibile la direttrice di fondo dell’intervento legislativo, di valorizzare il ruolo delle organizzazioni sindacali e della contrattazione collettiva, soprattutto aziendale e locale, per una gestione del mercato del lavoro che realizzi il miglior equilibrio possibile tra tutela dei lavoratori e interesse delle/a imprese/a. Si tratta, peraltro, di una sfida per il sindacato e occorrerà verificare se esso vorrà o sarà capace di accettarla e come lo farà.
Il passaggio dalle “specifiche esigenze” ai “casi”, non significa che la contrattazione collettiva possa limitarsi a previsione di carattere generico, occorrendo identificare situazioni correlate a elementi oggettivi e caratterizzanti. E un discorso analogo vale per gli accordi individuali nella fase transitoria, tanto più se si richiama la giurisprudenza sul d.lgs. n. 368/2001.
Nella prospettiva sindacale, un ruolo prevalente dovrebbe avere la contrattazione aziendale, però non sempre presente nelle piccole imprese, che rischiano di essere così penalizzate, soprattutto ove il contratto di categoria nulla preveda.
In ogni caso, sia i contratti collettivi sia gli accordi individuali (nella fase transitoria) dovranno confrontarsi con il consolidato orientamento giurisprudenziale che considera la temporaneità dell’esigenza produttiva condizione di legittimità del contratto a termine.
Problemi specifici, infine, pone, ove accolta, l’ipotesi dei contratti collettivi applicati dall’azienda, ma stipulati da organizzazioni non comparativamente più rappresentative. In generale e senza limiti temporali, essi, proprio perché “applicati”, precludono all’azienda di ricorrere alle previsioni dei contratti ex art. 51, inibendo l’utilizzo dei contratti a termine, salvo che per esigenze di carattere sostitutivo. Nel periodo transitorio, invece, è l’idoneità del contratto aziendale a vincolare lavoratori dissenzienti perché iscritti ad altre organizzazioni sindacali a essere dubbia, col rischio di contestazioni sulla validità del termine contrattuale.
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