Vorrei proporre un “elogio del contratto a termine”, una riflessione provocatoria sulla qualità delle analisi e delle politiche del nostro mercato del lavoro. L’obiettivo può sembrare quello di attrarre l’attenzione sollecitando le reazioni emotive e qualche insulto social. L’intenzione vera è però quella di proporre una lettura un po’ diversa del nostro mercato del lavoro cercando di demolire alcuni luoghi comuni che caratterizzano il dibattito sulla qualità dei rapporti di lavoro, che solitamente viene interpretata sull’asse lavoro a tempo indeterminato (buono)-lavoro a termine (non buono). Un approccio dominante che viene utilizzato anche per qualificare le politiche del lavoro. Tanto da autorizzare, ad esempio, il rifiuto delle offerte di lavoro a termine per i percettori del reddito di cittadinanza.



Talmente rilevante da far coincidere l’indicatore di “precarietà” del mercato del lavoro con la percentuale degli occupati a termine. Mentre una scarsa considerazione viene riservata all’analisi del tasso di occupazione, cioè alla percentuale degli occupati rispetto al totale delle persone in età di lavoro, che ragionevolmente dovrebbe essere l’oggetto primario di attenzione, dato che influenza il numero dei redditi mediamente introitati dai nuclei familiari.



In effetti, il vero divario tra il nostro mercato del lavoro e quello degli altri paesi sviluppati non si riscontra nella percentuale dei lavori a termine, attestata sulla media europea del 16%, ma sul tasso di occupazione che diversamente è inferiore di 10 punti percentuali rispetto all’analoga media, per un volume equivalente di oltre 2,5 milioni di unità lavorative. Tutto ciò ha delle conseguenze evidenti. Le nostre politiche del lavoro, a prescindere dal colore politico dei governi, hanno investito decine di miliardi, circa 30 solo negli ultimi 5 anni, per incentivare le trasformazioni dei contratti a termine verso quelli a tempo indeterminato. Sottraendo di fatto risorse agli investimenti da dedicare all’occupabilità delle persone, a partire dalla qualità dei percorsi formativi e dei servizi di orientamento, e alla crescita delle imprese.



Ma l’aspetto più inquietante è la scarsa conoscenza del mercato del lavoro, e in questo ambito della funzione dei contratto a termine, che fa preoccupare. Per spiegare questa affermazione utilizzerò i dati delle Comunicazioni obbligatorie delle imprese per le attivazioni dei nuovi rapporti di lavoro nel settore privato della economia. Nel corso del 2018 risultavano attivati circa 11,350 milioni di nuovi rapporti di lavoro, nell’ambito dei quali 7,9 milioni a termine, rispetto agli 1,6 milioni a tempo indeterminato (e un’ulteriore quota di circa 1,8 milioni tra apprendisti, collaboratori, contratti intermittenti, di inserimento lavorativo…).

Questi movimenti ovviamente non coincidono con le teste, dato che molti di questi rapporti sono stati attivati per le stesse persone. Infatti sono circa 5 milioni i lavoratori fisicamente coinvolti in questo volume di movimenti. Circa un terzo della platea dei lavoratori dipendenti privati. Un indicatore che evidenzia l’elevato grado di mobilità, ivi compreso il travaso che avviene nel doppio senso tra i rapporti a termine e quelli a tempo indeterminato.

Cosa influenza la promozione di questi rapporti a termine? Indubbiamente la stagionalità, l’andamento variabile della domanda di prodotti e dei servizi che caratterizza un notevole numero di settori (il turismo, l’agroalimentare, l’edilizia, la logistica), la sostituzione provvisoria di lavoratori assenti al lavoro con diritto alla conservazione del posto. Nei settori dei servizi alle persone e del lavoro domestico è rilevantissimo il tasso di mobilità per fattori facilmente comprensibili. In forme meno incidenti, ma comunque significative, l’andamento delle commesse nei settori della manifattura e del lavoro somministrato.

Cosa influenza la trasformazione dei rapporti a termine in quelli a tempo indeterminato? Sono i fattori strutturali dell’economia, la capacità di allungare tempi di programmazione della domanda, l’evoluzione delle forme organizzative delle imprese, che vengono influenzati anche dal tasso di crescita di una economia. La percentuale dei contratti a termine è più elevata nei comparti dei servizi, nelle aree economiche più deboli e/o influenzate dai fattori stagionali, nelle piccolissime imprese. Dipende in buona sostanza da fattori strutturali che possono essere modificati con politiche di lungo respiro.

Gli sgravi contributivi per le trasformazioni, possono congiunturalmente “drogare” la trasformazione dei contratti a termine verso quelli a tempo indeterminato. Ma è ampiamente dimostrato che non modificano in modo significativo il tasso di mobilità dei rapporti di lavoro, l’incidenza dei contratti a termine sul totale e la qualità effettiva dei rapporti di lavoro. In poche parole, i rapporti di lavoro vengono effettivamente attivati o dismessi in ragione dei fattori strutturali, non delle modifiche normative. Anzi, qualora queste norme risultino eccessivamente restrittive potrebbero persino compromettere la promozione di lavoro regolare.

In effetti, nell’attuale situazione di incertezza economica, la diminuzione del numero dei nuovi contratti a termine dovrebbe essere interpretato come un indicatore negativo per le prospettive del mercato del lavoro. E non, come sta avvenendo, con giudizi trionfalistici. Questo non significa affatto rinunciare al miglioramento della qualità normativa, per evitare abusi, ovvero a incentivare i rapporti a tempo indeterminato, soprattutto riducendo strutturalmente i costi del lavoro. Un mix ragionevole di interventi legislativi e di regolazioni demandate alla contrattazione collettiva deve corrispondere a questo scopo.

Per i motivi sopracitati non esito a definire come “idiota” la qualità del dibattito italiano sulle politiche del lavoro. E le attuali politiche del lavoro sono perfettamente in linea con questa qualità.