Il Governo Meloni, fin dalle prime battute in sede di voto di fiducia, ha preso un impegno molto chiaro ma destinato a fare discutere: “Chi fa impresa deve essere lasciato lavorare”. Va da sé che questa “dottrina” non può non riguardare anche la disciplina dei rapporti di lavoro. Già consultando i programmi elettorali della coalizione vittoriosa non vi era traccia del “grande Satana” della sinistra, esorcizzato in continuazione: il c.d. precariato. Il Governo – in questa materia molto delicata – ha fatto – con la stessa presidente del Consiglio – delle affermazioni molto nette quando ha spiegato che cosa significa una proposta di lavoro ai percettori occupabili del Reddito di cittadinanza (Rdc): non è giusto che qualcuno in attesa di trovare l’occupazione auspicata percepisca il Reddito di cittadinanza a spese di chi ha accettato di lavorare in un posto che non corrisponde alle sue aspettative.
Il primo segnale di un cambio di passo il Governo l’ha dato già nella Legge di bilancio con l’introduzione dei contratti di prestazione occasionale (CPO). In proposito, la Relazione tecnica (RT) conferma che la proposta di modifica normativa ha carattere espansivo per quanto concerne l’utilizzo di questa tipologia in quanto rende meno stringenti sia i limiti di importo (da 5mila a 10mila euro per gli utilizzatori), sia i limiti di forza lavoro (da 5 a 10 dipendenti) interessati; inoltre, contribuisce all’effetto espansivo della platea interessata l’introduzione di una maggiore flessibilità per il settore agricolo.
D’altro canto, secondo la RT, ferma restando la domanda di lavoro, il maggior ricorso ai CPO farà diminuire, verosimilmente, il ricorso a contratti di altra natura (lavoro a tempo determinato, lavoro stagionale). In ogni caso, si avrebbe minor gettito contributivo per assicurazioni compensato dalle minori spese per prestazioni di sostegno al reddito (disoccupazione, cassa integrazione, ecc.). Sono interamente a carico dell’utilizzatore la contribuzione alla Gestione separata Inps, nella misura del 33% del compenso, e il premio dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, nella misura del 3,5% del compenso.
Sulla base di tali considerazioni, pertanto, la RT non ha ravvisato nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. A essere maligni si potrebbe pensare che il Governo – con i CPO – si rivolga ai sindacati in questo modo: “Ce l’avete tanto con i contratti a termine? Bene, con la nuova norma ce ne saranno di meno. Soprattutto non costringeremo più le aziende a stipulare contratti a termine di uno o pochi giorni al posto degli aboliti (ma pratici) voucher”. Probabilmente – sotto sotto – anche ai sindacati non dispiace un recupero della logica dei voucher, perché si sono accorti che i vincoli, i divieti e le proibizioni nell’utilizzo di rapporti e pratiche di lavoro conformi alle caratteristiche delle mansioni svolte finiscono per peggiorare la condizione dei lavoratori interessati costringendo le imprese a usare strumenti previsti per altre tipologie.
Le cose sono andate in questo verso anche dopo l’approvazione del Decreto dignità, tanto che – col pretesto del Covid – la sua applicazione è stata sospesa e non più riattivata. I sindacati si accorsero per primi che quel provvedimento determinava un accelerato turnover degli assunti a termine, in quanto le imprese, venuto a scadenza i contratti nell’ambito dei primi 12 mesi, evitavano di infilarsi nella via crucis delle condizionalità, previste dopo aver superato quel termine, e assumevano dei nuovi contrattisti. Il Governo sta considerando di allargare a 24 mesi la possibilità di assumere a termine senza condizionalità. Immaginiamo che i sindacati – soprattutto la nuova coppia fissa Cgil-Uil – non saranno d’accordo. Sembra infatti che il contratto termine (che la forma di precarietà più tutelata perché a essa si applicano i contratti vigenti, vi sono comunque dei limiti temporali al loro utilizzo e sono previsti incentivi per la loro trasformazione a tempo indeterminato) sia il rapporto di lavoro più inviso: Anzi, nella polemica pubblica, spesso si confondono anche i concetti di stock e di flussi.
È vero che gran parte delle assunzioni (flussi) avvengono a termine, ma è altrettanto vero che lo stock resta più o meno sempre lo stesso. La tabella (fonte Inps) dà conto della ripartizione tra le diverse tipologie contrattuali, da cui emerge chiaramente che la stragrande maggioranza dei lavoratori dipendenti lavora a tempo indeterminato (15 milioni contro 4 milioni).
Occorre poi tener conto che vi sono settori come il lavoro stagionale dove è normale l’impiego a termine (magari sommando due contratti “stagionali” si arriva a completare un anno). Poi vi è il lavoro somministrato, anch’esso necessariamente a termine secondo le esigenze del soggetto utilizzatore, ma che potrebbe basarsi su di un rapporto a tempo indeterminato tra l’agenzia e il lavoratore. Poi è certo, ci sono anche gli abusi. Ma occorre sempre osservare la realtà con attenzione e senza pregiudiziali ideologiche. Per esempio, è ormai assodato che – nonostante le difficoltà dell’economia – una nuova grave emergenza del mercato del lavoro è il crescente mismatch tra domanda e offerta di lavoro che non è più solo una problema qualitativo (riguardante la mancanza delle professionalità necessarie che chiama in causa la filiera della formazione), ma anche quantitativo, dovuto a fatti strutturali difficilmente colmabili quali la denatalità e l’invecchiamento della popolazione.
Ci avviamo a una prospettiva molto grave che vedrà entro pochi anni un “buco” nella popolazione in età di lavoro che neppure l’immigrazione sarà in grado di colmare (in effetti il flusso di stranieri non è più in grado di compensare il saldo negativo già dal 2014 e da allora l’Italia ha perduto 1,4 milioni di residenti di cui 900mila nel Mezzogiorno).
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