Tra le tante novità introdotte dal Decreto rilancio vi è anche quella relativa alla disciplina “temporanea” dei contratti a tempo determinato (chiediamo venia per il bisticcio di parole). Per meglio apprezzarla, riassumiamo (in via di estrema sintesi e per quel che qui rileva) l’evoluzione della normativa. Con il c.d. Decreto Renzi-Poletti (D.L. 20.3.2014, n. 34, convertito dalla L. 16.5.2015, n.78) è stata eliminata la necessità di legare l’assunzione a termine all’esistenza di una ragione (oggettiva o soggettiva); la ragione giustificatrice è stata sostituita con un requisito temporale (la durata complessiva del rapporto di lavoro, con un tetto massimo di 5 proroghe, non poteva superare i 36 mesi).
L’abolizione della così detta “causale” è stata una novità epocale, quel requisito essendo stato previsto fin dall’introduzione nel nostro ordinamento (risalente al lontano 1962) del contratto di lavoro a tempo determinato. La novità è stata poi confermata anche dal successivo D.Lgs. 15.6.2015, n. 81 (“Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183”). Tre anni dopo, però, “contrordine, compagni!” (per citare Giovannino Guareschi): con il c.d. “Decreto Dignità” (D.L. n. 12.7.2018 n. 87, convertito dalla L. 9.8.2018 n. 96), le causali sono state reintrodotte. Più precisamente, il Decreto Dignità ha modificato il primo comma dell’art. 19 del D. Lgs. n. 81/2015 come segue: “Al contratto di lavoro subordinato può essere apposto un termine di durata non superiore a dodici mesi. Il contratto può avere una durata superiore, ma comunque non eccedente i ventiquattro mesi, solo in presenza di almeno una delle seguenti condizioni: a) esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori; b) esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria“.
La notoria situazione emergenziale legata al Covid-19 si è abbattuta anche sui lavoratori a tempo determinato e così il Governo (che se ne era presumibilmente “dimenticato” in fase di emanazione del D.L. n.18/2020) con la legge di conversione del 24/04/2020 n. 27 ha inserito l’art. 19-bis, rubricato “norma di interpretazione autentica in materia di accesso agli ammortizzatori sociali e rinnovo dei contratti a termine” (escamotage giuridico per introdurre una norma retroattiva, non ponendosi alcun oggettivo problema di “interpretazione autentica”). Quella norma ha quindi stabilito: “Considerata l’emergenza epidemiologica da Covid-19, ai datori di lavoro che accedono agli ammortizzatori sociali di cui agli articoli da 19 a 22 del presente decreto, nei termini ivi indicati, è consentita la possibilità, in deroga alle previsioni di cui agli articoli 20, comma 1, lettera c), 21, comma 2, e 32, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, di procedere, nel medesimo periodo, al rinnovo o alla proroga dei contratti a tempo determinato, anche a scopo di somministrazione“.
Com’è stato rilevato da numerosi commentatori, la norma non escludeva però la necessità di una delle causali stabilite dal Decreto Dignità nel caso in cui la proroga o il rinnovo dovesse trovare applicazione nei confronti di un rapporto di durata superiore ai dodici mesi. Il che non rendeva di agevole applicazione la norma e conseguentemente non evitava i rischi sociali e i costi (per lo Stato) connessi alla chiusura di un elevatissimo numero di rapporti di lavoro (la “relazione tecnica” al “maxiemendamento” segnalava che “qualora i contratti a tempo determinato di tali lavoratori non venissero rinnovati o prorogati nel periodo considerato, tali soggetti rientrerebbero nel bacino di applicazione della Naspi dando luogo a oneri maggiori”). A porre “rimedio” a questa situazione è intervenuto il D.L. n. 34/2020, il quale all’art. 93 dispone: “In deroga all’articolo 21 del decreto legislativo 15 giugno 2015 n. 81, per far fronte al riavvio delle attività in conseguenza all’emergenza epidemiologica da Covid-19, è possibile rinnovare o prorogare fino al 30 agosto 2020 i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato in essere alla data del 23 febbraio 2020, anche in assenza delle condizioni di cui all’articolo 19, comma 1, del decreto legislativo 15 giugno 2015 n. 81“.
La nuova norma non è più circoscritta ai soli datori di lavoro che “che accedono agli ammortizzatori sociali” e (finalmente) consente il rinnovo o la proroga del contratto a tempo determinato anche in assenza delle ragioni giustificatrici introdotte con il Decreto Dignità (fino al 30 agosto 2020). Ma non è tutt’oro quel che luccica. La norma è applicabile solo “per far fronte al riavvio delle attività in conseguenza all’emergenza epidemiologica da Covid-19“. Così, di fatto, si è introdotta una nuova ragione giustificatrice della proroga o del rinnovo, che se dovesse mancare renderebbe illegittima la prosecuzione del rapporto di lavoro a termine. Non solo. Proprio perché la norma richiede che sia necessario “far fronte al riavvio” dell’attività imprenditoriale, ciò pare postulare che l’attività del datore di lavoro si sia precedentemente arrestata durante e a motivo della crisi epidemiologica (diversamente la norma non parlerebbe di “riavvio”).
La norma pare quindi escludere tutte le imprese che non si trovino a riaprire i battenti (con la conseguenza di penalizzare i lavoratori a termine che nel periodo più duro e rischioso dell’emergenza vi sono stati addetti). Forse la norma potrebbe trovare applicazione anche presso i datori di lavoro che abbiano “solo” ridotto la propria attività e che ora siano in procinto di svolgerla appieno (si pensi ad una chiusura parziale dell’azienda riferita ad alcuni reparti). Ma non è detto. Speriamo che la Legge di conversione faccia chiarezza, evitando che il compito sia affidato ai Tribunali (con tutte le gravose conseguenze del caso).