Qualche volta, qualche mica tante ma insomma, uno si chiede se per caso stia vivendo in un incubo o se quella che a lui pare la normalità sia una fola.
D’accordo, questa è l‘epoca delle influencer e degli influencer, l’epoca in cui meno sai fare meglio è: anzi, soprattutto non devi fare, creare, produrre. Basta che tu sappia cuoricineggiare. Il talento e lo studio sono roba del passato, un po’ come i giornali: dove una volta trovavi analisi e notizie oggi si accumulano materiali copiaincollati dai social. E bada bene di non saper scrivere, caso mai qualcuno non capisse o non riconoscesse ironie, sarcasmi, metafore e doppi sensi! In quel caso apriti cielo: i leoni da tastiera (ex avventori di congressi tabernari e vitivinicoli) aprirebbero le cataratte del cielo. Oggi per informarti devono bastarti titoli e sintesi da dieci parole: oltre per l’habitué medio diventa il labirinto dantesco.
Prendiamo ad esempio il dibattito sulle proposte di rinnovo del contratto dei metalmeccanici.
Riguarda, ricordiamolo subito, più di 1 milione e 500 mila lavoratori. Non siamo alle cifre di quaranta e nemmeno di venti anni, ma si tratta pur sempre il 6,2% degli occupati nel nostro Paese e mandano avanti per la loro parte quasi 30.000 imprese. Si può guardare a loro con un certo sentimentalismo, con la nostalgia (o la rabbia, o il timore, o l’ansia: fate vobis secondo gusto) di quando l’Italia era in mano loro, ma a oggi, dopo chiusure, rottamazioni, licenziamenti, trasformazioni, producono pur sempre l’8% del nostro Pil e il 45% delle nostre esportazioni. Mica paglia. Varranno pur sempre non si dice una lettura approfondita delle loro proposte di contratto, ma almeno una scorsa di pagine che, pur scritte in contrattese, potrebbero contenere, vedi mai, una notizia, una novità tali da meritare non si dice una notiziola, ma quanto meno un sommario? Badate bene: i metalmeccanici furono, non sono più, il cuore pulsante del mondo produttivo, ma ancor oggi restano quanto meno una fabbrichetta di idee. Beh, scorrendo i siti genericisti e quelli specialisti, nonché quotidiani e stampa varia, se evitiamo quelli che per mestiere e interesse di bottega dedicano a questi temi tanto materiale e spazio, la notizia è stata ridotta più o meno così: vogliono 280 euro e meno ore di lavoro. Poi, commento nostrano, osano lamentarsi se la gente invece di comperare il suo quotidiano di governo o di lotta (tranne quelli leghisti che sono di governo e di lotta alla Meloni) preferisce spendere l’eurino quotidiano per bersi il Campari! Intendiamoci: mica è sbagliata la notizia, ma, come si fa ultimamente sulla carta stampata, senza ribaltare i fatti se ne prende un pezzo, lo si distorce, ci si inventa un paradosso ed ecco pronta la notizia che il lettore si attende.
Cosa dice allora ‘sto documento? Spiegacelo un po’ tu, saputello, risponderanno in coro gli amici del Fatto e della Verità col sostegno dell’intero arco della carta stampata? Ma studiate dai!
Pensare che un contratto nazionale, che deve andar bene alla fabbrichetta brianzola come alla multinazionale catanese sia sintetizzabile in formulette da TikTok è indice di mente distorta: a problemi complessi si devono dare risposte complesse che, lo capiamo, richiedono qualcosa in più di analisi telegrafiche o mitologemi instagrammati.
Prendiamo il tema, il più attuale tra tutti, dell’orario di lavoro. Il giornalista di punta (ma una volta alla professione più antica, ex aequo con un’altra, del mondo non c’era un esame di ammissione in cui dovevi dimostrare una certa qual cultura generale?), ragiona così: meno ore uguale 40 ore settimanali meno un tot delle stesse ma pretendono la parità di stipendio. Reazione di sinistra: finalmente una sberla al capitalista sfruttatore. Ragionamento di destra: ladri e affamatori, oltre che lazzaroni. Ora, il problema è assai più complesso, ma lo stato della materia è tale che è bell’e pronta per una riforma, non una rivoluzione, del settore.
Prima la notizia, come ci insegnavano una volta: non esiste un solo modello di orario, ma si possono tranquillamente elencare tante tipologie di orario di lavoro quanti sono i modi di stendere un bilancio aziendale o di cuocere le uova, tant’è che a oggi imprese che certo non fanno fatica a stare sul mercato mondiale, diciamo Luxottica ma anche Lamborghini o la Sace, hanno cominciato a ragionare in termini diversi da quelli tardo ottocenteschi. Lasciamo pur stare i retorici “cambiamenti epocali” e le varie transizioni “ecologica, digitale e tecnologica” con gli annessi “processi di riorganizzazione e crisi”, ma già oggidì ci sono esperienze ampiamente diffuse di “rimodulazione” degli orari – “telelavoro, lavoro agile, eccetera”; già oggi si discute di nuovi orari per consentire un “maggior utilizzo degli impianti” con le “nuove turnistiche”.
Se non fossimo il Paese della lagna (assai più che quello della lasagna) non slegheremmo i nuovi orari di lavoro dall’annosa questione della conciliazione fra “tempi di vita e di lavoro”, e per capirlo, riconosciamolo, bastava leggere quel che si trova nell’ipotesi di piattaforma in questione. Dove non si chiede una riduzione secca dell’orario, ma “una fase di sperimentazione contrattuale” che consenta, questo sì, di “raggiungere progressivamente una riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore settimanali”. Ma badate bene “facendo salve le intese aziendali esistenti”: tradotto, nel merito della questione ci sono già così tante esperienze in giro da obbligare il Contratto nazionale a salvaguardarle o anche a migliorarle. Niente rivendicazioni bolsceviche, niente calabraghismo da sindacato giallo, niente velleitarismo. In pratica, una buona proposta. Ora si vedrà come andranno le trattative, ma il punto per noi rimane quello del riformismo e qui ce n’è, se non altro nel mantenimento di un rapporto sano e efficace tra contratto nazionale e contrattazione aziendale.
Ma ragioniamo ancora sul punto. Ridurre l’orario non è impossibile: i bancari, ad esempio, sono riusciti a spuntare un taglio da 37,5 a 37 ore nell’ultimo Ccnl e sono sempre più le aziende (quelle grandi certo, ma mica solo loro) che si chiedono come poter rimodulare le ore di lavoro. Anche perché altrimenti saranno costretti a continuare a gemere per la cronica carenza di personale giovane, tecnico e specialista. Consci della dolorosa situazione in cui versano tanti imprenditori desiderosi di pagare il dovuto, a essi dedichiamo un doveroso pensiero: qual è il giovane (ma rigorosamente con esperienza), preparato (ma per il quale si deve ancora attivare il contratto di tirocinio), di accertata volontà (che dunque accetterà di buon cuore un salario al di sotto del minimo vitale) che potendo scegliere andrà in un’azienda in cui rigidamente gli orari (e le retribuzioni) sono immutati dall’epoca della prima rivoluzione industriale?
Guardiamoci in giro per una volta: ci sono progetti pilota che stanno spopolando in Germania, Regno Unito, Spagna. Sì bello lui, direbbero i saperlalunghisti, ma non lo sa che la Germania va male? Scommettiamo che i tedeschi si riprenderanno assai prima di quanto noi ci metteremo a riconoscere che il nostro Pil è in caduta più libera dei capelli dalla testa di un calvo?
Il nodo non sono le ore o le modalità di organizzazione della produzione perché si può lavorare su 4 giorni invece che su 5 a parità di orario e di salario allungando di qualche ora ogni giornata lavorativa. E quando l’orario giornaliero non varia ma si lavora solo per quattro giorni e quindi il monte orario settimanale si riduce ci si può accordare sulla alternanza tra settimane corte e lunghe. E sempre a parità di salario? Sì, si può fare, come diceva quella pubblicità, e senza spennare quella gallina dalla uova d’oro che è l’azienda (poi un giorno ragioneremo anche su chi talora fa sparire i suddetti prodotti del deretano pollamesco dopo la loro cova): si possono legare quote di salario alla produttività (capitolo nel quale in Italia ci distinguiamo per debolezza strutturale), o al maggiore sfruttamento degli impianti o anche a una miriade di altri parametri invece che semplicemente alla presenza in azienda o all’orario canonico. E per finire in altri casi quote di salario perso per le ore si recuperano con il welfare aziendale.
Nel mondo del lavoro si sta scavando un fossato tra quanti godono della flessibilità oraria e quanti sono costretti nella camicia di forza di strutture orarie irriformate. La settimana corta poi è solo una delle conformazioni di flessibilità per conciliare vita-lavoro: un anno fa su questa strada si è avviata Intesa Sanpaolo, ma è stata ben presto seguita da altre imprese, soprattutto nel mondo tech e digitale. Come dicevamo prima alla Sace, società partecipata, si sperimenta il lavoro su quattro giorni e il dipendente ha facoltà di scegliere qualsiasi giorno per il riposo in base alle esigenze individuali.
Anche alla Filograna, imprese del calzaturiero pugliese con duecento dipendenti, il contratto integrativo parla di settimana di quattro giorni in via sperimentale e su base volontaria.
Esistono insomma infiniti modi di costruire settimana e orari flessibili ognuno dei quali adattabile a uno specifico tipo di produzione e al numero dei dipendenti.
Per la settimana corta servono poi semplicemente un accordo con i sindacati e l’adesione dei dipendenti su base volontaria, senza costrizioni dall’alto. Lo scambio è tra settimana più corta, flessibilità lavorativa e produttività.
Quanto interessa tutto ciò alla gente? Un dato: nelle aziende coinvolte finora ha aderito almeno il 70% dei dipendenti; in sostanza la proposta di Contratto dei Metalmeccanici non apre nessuna strada alle orde di cosacchi. Si tratta semplicemente di una svolta alla quale si può reagire col solito italico meccanismo pavloviano delle tifoserie contrapposte, o si può tentare di attivare i neuroni. Honny soit qui mal y pense!
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