Con il via libera della Commissione di designazione alle candidature è partita ufficialmente la corsa per la nomina del nuovo Presidente di Confindustria, che prenderà il posto di Carlo Bonomi alla guida dell’associazione per i prossimi quattro anni. Come hanno annunciato le agenzie, Edoardo Garrone, Antonio Gozzi, Alberto Marenghi ed Emanuele Orsini sono gli imprenditori scesi in pista, che hanno superato la soglia del 10% di sostenitori nel Consiglio generale; Garrone in realtà sarebbe già oltre il 20% ed è per questo già certo di partecipare al voto di designazione il 4 aprile.
Dai prossimi giorni via al lavoro dei tre saggi che saranno in tour in diverse tappe in Italia per ascoltare l’orientamento delle associazioni territoriali e di categoria e quindi scremare il gruppo dei pretendenti. Si partirà da Torino, per passare poi da Bologna, Roma, Milano, Padova e Napoli. Garrone, Gozzi e Orsini hanno già presentato delle linee programmatiche per prendere parte all’ulteriore fase della procedura delle designazioni e sostenere la propria candidatura nel dibattito che si aprirà in vista della votazione fissata per il 4 aprile.
La Confindustria è la più importante organizzazione imprenditoriale del Paese, ricca di storia e di esperienze. Il suo primo compito è quello della rappresentanza degli interessi dei settori industriali che costituiscono la seconda realtà manifatturiera dell’Europa e funzionano – attraverso l’export di qualità – da volano dell’economia. In questo ruolo è da sempre, insieme alle organizzazioni sindacali tradizionali, una protagonista del sistema delle relazioni industriali.
Questa attività negoziale ha intessuto un impianto di regole che fa dell’Italia uno dei Paesi che è in grado di garantire una copertura contrattuale alla quasi totalità del lavoro dipendente, affrontando nodi decisivi al momento delle scelte cruciali per il Paese; si pensi, per restare nell’ambito degli ultimi decenni, alle intese sulla struttura della contrattazione e sulle politiche retributive che hanno consentito all’Italia di seguire puntualmente le svolte compiute dall’Ue nella prospettiva della moneta unica.
Negli ultimi anni il protagonismo dei soggetti intermedi e delle parti sociali si è affievolito fino alla paralisi. L’ultimo atto di un certo rilevo che merita una segnalazione riguarda i Protocolli dell’aprile del 2021 per consentire il lavoro in condizioni di relativa sicurezza al tempo della crisi sanitaria da Covid-19. Protocolli poi recepiti dal Governo che consentirono, dopo i primi 100 giorni di chiusura pressoché totale (-9 punti di Pil), la riapertura di gran parte dei settori produttivi. Poi anche questo momento di collaborazione si interruppe quando importanti settori del sindacato decisero di contestare le scelte del Governo riassumibili con le procedure del green pass.
Va poi riconosciuto alla Confindustria che in occasione dell’Assemblea del 21 settembre 2021 il Presidente Carlo Bonomi lanciò ai sindacati la proposta di un Patto per l’Italia, che Mario Draghi assunse a nome del Governo nel suo intervento, ma che venne fatta cadere subito da Maurizio Landini e da Pierpaolo Bombardieri. Da quel momento l’azione del sindacato si è rivolta esclusivamente nei confronti del Governo con rivendicazioni attinenti alle politiche pubbliche. Si pensi alla questione del salario minimo per il quale nessuna delle parti sociali ha avvertito la necessità di un confronto che avrebbe potuto – come avvenne in altri casi – orientare anche una soluzione legislativa. Invece, la partita si è giocata interamente a livello politico, salvo il recupero dei corpi intermedi fornito, per una felice intuizione, dal Cnel.
Il risultato di questo blackout comunicativo lo si vede anche nello stato piuttosto critico della contrattazione collettiva. Alla fine di dicembre, secondoil rapporto Istat, risultano in vigore 44 contratti che regolano il trattamento economico di circa 5,9 milioni di dipendenti (47,6% del totale) e corrispondono al 48,1% del monte retributivo complessivo. L’incidenza percentuale del monte retributivo dei dipendenti con contratto in vigore è pari al 63,7% nel settore privato, con quote differenziate per attività economica: 100,0% nel settore agricolo, 92,5% nell’industria e 37,0% nei servizi privati. Nel mese di dicembre 2023, la quota di dipendenti in attesa di rinnovo è pari al 52,4% per il totale dell’economia, quota in aumento rispetto al mese precedente (quando era il 51,1%) e rispetto a dicembre 2022 (49,6%). In media, i mesi di attesa per i lavoratori con il contratto scaduto sono 32,2, in aumento nel confronto con dicembre 2022 (24,8); anche l’attesa media calcolata sul totale dei dipendenti aumenta, passando da 12,3 mesi di dicembre 2022 a 16,9 mesi. Nel settore privato, la quota dei dipendenti in attesa di rinnovo è pari al 38,3%, in aumento sia rispetto al mese precedente (36,6%). sia rispetto a dicembre 2022 (34,7%); i mesi di attesa per i dipendenti con il contratto scaduto sono 38,6 e scendono a 14,8 mesi se calcolati su tutti i dipendenti del settore.
Se si fanno i conti, 38 mesi sono più di 4 anni. Quanti scioperi generali – lo chiediamo a Cgil e a Uil – sono stati effettuati inutilmente in questo arco temporale? Certo, su questo Aventino contrattuale pesano di più altri settori che non l’industria. Ma forse c’è un problema di carattere strutturale. Il contratto nazionale di categoria è tuttora il perno del sistema delle relazioni industriali. L’unico candidato che, nelle sue linee programmatiche, fa riferimento a questo aspetto essenziale per unìassociazione di imprese è Emanuele Orsini per il quale “la moltiplicazione dei contratti regolarmente depositati secondo i requisiti di legge è una delle origini concomitanti dei vasti fenomeni di basse retribuzioni, diffuse violazioni dei diritti dei lavoratori ed estesa evasione contributiva: di cui l’intero mondo delle imprese viene poi additato come responsabile, mentre ne è immune. Ora che importanti contratti dell’industria – prosegue Orsini – andranno in scadenza, occorrerà tenere alta questa bandiera, e continuare a chiedere alla politica di far sua la necessità di regolare i requisiti minimi di rappresentanza per la firma dei Ccnl, sia sul versante datoriale sia su quello sindacale, seguendo i criteri già vanamente indicati dal Protocollo Interconfederale del 2014, poi rimasto nel cassetto. Tuttavia, siamo anche chiamati a un dovere di maggior trasparenza all’interno del nostro Sistema. L’autonomia contrattuale è un presidio delle diverse Associazioni e Federazioni di settore del nostro Sistema”.
Le ammissioni che seguono sono significative e testimoniano la presenza di problemi reali. “Ma abbiamo assistito, in alcuni casi, al frazionamento della nostra comune rappresentanza, attraverso la nascita di nuove Associazioni separate nella stessa Federazione, con firma di contratti con diversi regimi salariali e di prestazione d’opera. Non guardiamo solo agli interessi specifici e di breve periodo; la frammentazione induce sempre debolezza anche quando inizialmente appare il contrario”.
Orsini, poi, affronta un tema cruciale (che è comune alle linee programmatiche degli altri candidati: “Il divario strutturale tra domanda e offerta di lavoro, che ormai sfiora il 50%, è un problema enorme e un limite alla crescita stessa delle imprese, che dobbiamo risolvere insieme. Un problema che ci costa, come totalità di aziende, ogni anno 38 miliardi. Mancano matematici, fisici, chimici, ingegneri, informatici, specialisti nella moda, nella meccanica, nel legno-arredo e in tutte le grandi aree per cui l’Italia è famosa in ogni parte del mondo”.
Quanto alle proposte, Orsini sostiene che a fianco al tema della formazione dei giovani, devono essere compiuti passi avanti sugli impegni per la parità di genere. Occorre promuovere azioni pubbliche che mirino esplicitamente ad agevolare una quota maggiore di studentesse a imboccare nel ciclo secondario i percorsi tecnici, e quelli STEM terziari e post terziari. Servono strumenti per alleviare i costi di formazione universitaria.
Come abbiamo detto su questa criticità intervengono anche gli altri candidati che però non si soffermano sulla questione della contrattazione. Edoardo Garrone (che allo stato sembra essere il candidato in pole position) sottolinea che “gli ultimi dati sul mercato del lavoro ci dicono che dei 5,5 milioni di contratti programmati dalle imprese nel 2023 circa 3,5 milioni sono posizioni offerte per professioni con un titolo tecnico-professionale e di istruzione e formazione professionale. È stato difficile trovare ben il 65% dei diplomati ITS Academy, in particolare tecnici specializzati nell’area meccanica e nell’area Ict. Risulta introvabile anche il 49% di laureati (specie nelle discipline scientifiche-tecnologiche) e il 46,9% dei diplomati professionali. Non si può inoltre ignorare – aggiunge – il fenomeno dei cosiddetti Neet ovvero dei giovani tra i 15 e i 29 anni che né studiano né lavorano e che, nel nostro Paese, superano i 2 milioni, pari al 23% della popolazione giovanile. A fronte di queste dinamiche – secondo Garrone -, Confindustria deve assumersi la responsabilità di svolgere un ruolo di forte stimolo perché scuola, università, formazione professionale si posizionino come interessi prioritari nell’agenda politica del Paese. Un sistema – quello della formazione professionale – da potenziare, ampliare e rendere flessibile in modo tale da permettere l’accesso anche a immigrati e rifugiati, supportando un processo virtuoso di integrazione, anche a beneficio del nostro sistema produttivo e in particolare delle PMI”.
In materia di lavoro Antonio Gozzi richiama la necessità di un processo di convergenza sul costo del lavoro con i Paesi concorrenti; chiede misure di razionalizzazione per gli interventi sulla decontribuzione (giustamente fa notare che si è arrivati, negli ultimi casi, a mettere insieme la fiscalità generale e la previdenza); sottolinea l’importanza della fiscalità di vantaggio per la remunerazione della produttività e per le tipologie del welfare aziendale.
Certamente l’insieme di queste proposte richiedono – i candidati ne sono consapevoli – relazioni migliori con il governo, la Pa e le organizzazioni sindacali. Quest’ultime non vengono mai evocate direttamente. È un segno dei tempi?
Ricordiamo in conclusione il profilo dei candidati. Edoardo Garrone, 62 anni, è presidente di Erg e del Sole 24 Ore. È stato vicepresidente di Confindustria ai tempi di Emma Marcegaglia. Antonio Gozzi, 69 anni, è invece presidente di Federacciai, del gruppo Duferco, della Virtus Entella. Emanuele Orsini è vicepresidente uscente (come Marenghi) di viale dell’Astronomia, con la delega a credito, finanza e fisco. Ha 51 anni, emiliano ed è imprenditore nell’edilizia in legno con Sistem Costruzioni e nell’alimentare con Tino Prosciutti. Alberto Marenghi è invece l’attuale vicepresidente con delega all’organizzazione, lo sviluppo e il marketing. Nato a Mantova, ha 48 anni ed è l’amministratore delegato di Cartiera Mantovana.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.