Il recente (6 novembre) accordo territoriale sui contratti a tempo determinato “Milano Città Turistica” sottoscritto da Confcommercio Milano, Lodi, Monza e Brianza, Filcams-Cgil Milano, Fisascat-Cisl Milano Metropoli e Uiltucs Lombardia è interessante per almeno quattro ordini di motivi, di cui tre costruttivi, l’ultimo problematico.
Il primo elemento da evidenziare concerne gli scopi e la finalità stessa del negoziato. Si tratta di un ulteriore passo verso l’affermazione di Milano non soltanto come motore economico, ma anche come centro di rilevante interesse turistico (con buona pace delle ricorrenti polemiche politiche sul presunto egoismo della città in termini di progresso economico). Solo dieci anni fa, prima di Expo 2015, era quantomeno fantasioso associare il nome di Milano a quello di vere e proprie capitali dell’attrattività turistica quali Venezia, Firenze, Roma e Napoli. Ora le statistiche ci raccontano di una crescente capacità della città (o, meglio, dell’intero macrosistema territoriale milanese, che va dai laghi fino alla “bassa” padana) nel convincere italiani e, soprattutto, stranieri a visitarne le bellezze antiche e moderne.
Basta girare per il centro, le mete artistiche e le fiere durante i periodi festivi per accorgersi di questa pacifica (e vantaggiosa) invasione. Ecco quindi che l’accordo individua nel periodo natalizio, pasquale ed estivo, oltre che in coincidenza di eventi, manifestazioni fieristiche e mostre, i periodi nei quali è integrato il requisito di stagionalità ai fini della stipulazione dei contratti a tempo determinato.
Il secondo elemento di interesse riguarda la tecnicalità messa in campo da Confcommercio e dai sindacati. Questi hanno sfruttato gli spazi di flessibilità concessi alla regolazione del contratto a termine dal decreto legislativo 81 del 2015 (art. 21, comma 2) e dal Ccnl per i dipendenti del Terziario, della Distribuzione e dei Servizi (art. 75) per alleviare le irragionevoli rigidità imposte a questa materia dal cosiddetto Decreto Dignità (d.l. 87 del 2018). La direzione intrapresa è sostanziale e non dogmatica: l’accordo consente alle imprese del settore aderenti a Confcommercio, di beneficiare, per i contratti a termini stagionali, di specifiche deroghe ai limiti di durata, alla disciplina delle proroghe e dei rinnovi, al cosiddetto stop&go e al tetto massimo del numero di contratti stipulabili. Sono pattuizioni che superano la ricorrente diatriba sulla precarietà, rendendo possibile l’attivazione di rapporti di lavoro anche molto brevi quando sono situati in una cornice di regole condivise che «creano le condizioni per il mantenimento del lavoro di qualità». Un lavoro breve è sempre meglio di un non lavoro, quando legale e protetto dalle norme del contratto collettivo.
Il terzo elemento di interesse concerne il ruolo delle relazioni industriali o, più correttamente, visto l’ambito, “di lavoro”: definizione che si dovrebbe imparare a usare di più! Queste si sono dimostrate ancora una volta più lungimiranti e concrete del legislatore. Tale caratteristica è ancor più evidente nei territori, poiché è proprio nel secondo livello di contrattazione che si realizza quella prossimità ai bisogni concreti che permette alle norme degli accordi sindacali di essere più efficaci delle norme statuali. Non a caso è molto forte lo scetticismo delle componenti sindacali più riformiste verso i tentativi di riforma della rappresentanza volti a portare nell’alveo della regolazione legislativa le dinamiche tipiche della dialettica contrattuale, superando settant’anni di autonomia collettiva. L’innovazione viene dai territori, anche in materia di diritto del lavoro.
Da ultimo è opportuno rilevare anche un profilo critico dell’accordo “Milano Città Turistica”. All’interno di un testo che può essere esaminato sotto molti profili giuridici (sono stati diversi gli apprezzamenti, ma anche non poche le critiche in punta di diritto da parte di alcuni addetti ai lavori), comunque giudicabile come un esercizio di responsabilità da parte dei contraenti, appare irragionevolmente vetusto il pregiudizio verso le “altre” forme di flessibilità.
Il riferimento è in particolare al contratto di lavoro intermittente (pure tipico di queste attività) è, ancor più, alla somministrazione di lavoro. Le aziende che aderiranno all’accordo, infatti, non potranno utilizzare la prima tipologia contrattuale in generale e la seconda nelle stesse unità operative e per le stesse mansioni nelle quali è utilizzato il contratto a termine “derogato”. Perché questo limite, figlio di una stagione di relazioni industriali (in questo caso il termine è appropriato…) allergica a ogni forma di flessibilità? Tale vincolo appare ancor più contraddittorio in un contratto volto a regolare proprio la flessibilità “buona”. Tale caratteristica non è però conseguenza meccanica della tipologia contrattuale utilizzata (contratto a termine o somministrazione), bensì esito dell’applicazione di quelle regole condivise che creano il lavoro di qualità. È scritto nell’accordo stesso; poteva essere declinato con ancor più convinzione e coraggio.
@EMassagli