Domani, martedì 5 ottobre, partirà la vertenza per il rinnovo del Contratto collettivo nazionale dell’industria metalmeccanica. Come gli esperti sanno, si tratta del contratto più pesante – in termini di rappresentatività dei lavoratori – dell’intero comparto industriale, da qui l’attenzione che costantemente suscita nell’ambiente e non solo. Anche perché, storicamente, spesso è stato foriero di innovazione come, ad esempio, nell’ultima occasione.
Il vigente contratto 2017-2019, rinnovato appunto nel 2016, era risultato innovativo sostanzialmente per tre fattori: 1) aveva introdotto il diritto alla formazione; 2) aveva individuato nuove forme di rafforzamento del potere d’acquisto; 3) aveva esaltato il secondo livello di contrattazione.
I primi due punti sono state innovazioni importanti che nella piattaforma 2020-2022 di Fim, Fiom e Uilm trovano ulteriore rafforzamento e sicuramente lo troveranno anche nella vertenza perché sono istanze condivise in modo unanime con la Parte datoriale. Per quanto riguarda invece il terzo punto, l’attuale impostazione della piattaforma richiamata – che ha previsto una richiesta di aumento salariale dell’8% – è elemento che va analizzato per più di un aspetto e che, senza dubbio, non solo prelude a un negoziato difficile con le controparti, ma pone qualche interrogativo.
Tre anni fa, le organizzazioni firmatarie si sono accordate sulla necessità di rafforzare la contrattazione aziendale sia in relazione alle trasformazioni del lavoro e di Industria 4.0, sia per rafforzare il legame tra salario e produttività del lavoro. Si diceva che si era una volta per tutte fatta chiarezza tra i due livelli di contrattazione, trattandosi di questione annosa. Bisogna però prendere atto che non ne è seguito un accordo interconfederale che sancisse questa chiarezza a un livello più alto.
Il fatto che oggi Fim, Fiom e Uilm si presentino alla vertenza per il contratto 2020-2022 con una richiesta di aumento dell’8% non può non farci pensare che, evidentemente, il principio suddetto viene rimesso in discussione. Il rinnovo precedente è avvenuto in un contesto in cui era appena stata resa strutturale la defiscalizzazione del salario di produttività e la sua sostituibilità in welfare. Ciò naturalmente faceva presupporre che la contrattazione decentrata, in particolare aziendale, sarebbe andata incontro a una crescita importante, cosa che si è verificata solo localmente: ovvero, solo in alcuni territori – in particolare Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia Romagna, Toscana – vi è una decisa propensione alla contrattazione di secondo livello. Lo stesso ultimo report del ministero del Lavoro sulla detassazione di produttività ci dice che le dichiarazioni di conformità riferite a contratti tuttora attivi sono per il 78% relative al Nord, per il 15% al Centro e per il 7% al Sud.
Nel comparto di riferimento, inoltre, le aziende che contrattano direttamente sono circa il 40%, dato in linea con quello confindustriale. Perché non si è verificato questo sviluppo? Questo è il punto che merita di essere analizzato.
Da una parte, come abbiamo visto, la fenomenologia del secondo livello ha una forte connotazione geografica. D’altro canto, il comparto della metalmeccanica è quello che più rappresenta le caratteristiche del nostro sistema produttivo: è, infatti, composto in prevalenza dalla PMI che è il principale soggetto della nostra economia. Premesso che la contrattazione di secondo livello può essere una sfida interessante anche per la PMI, perché permette di scrivere ordinamenti aziendali ad hoc, continuano a prevalere una certa reticenza a contrattare in azienda e una tendenza a ritenere il contratto nazionale unico riferimento regolatorio del rapporto impresa-lavoro. È in questo quadro che naturalmente è resa meno lineare, per molti lavoratori, la prospettiva della premialità variabile.
È questo fattore di poca inclusività del secondo livello di contrattazione che porta le organizzazioni sindacali a chiedere un significativo aumento della retribuzione nel contratto nazionale, al di là del fatto che una richiesta del +8% è piuttosto alta e difficilmente ricevibile, più che altro perché è oggi alquanto arduo convincere la rappresentanza di impresa ad abbandonare il principio della produttività. È anche vero che, per quanto dura possa apparire ora la vertenza, il comparto negli ultimi anni ha dato prova di unità e di partecipazione. Non sono quindi immaginabili conflitti e rotture.
Va inoltre considerato che il negoziato non si svolgerà in Confindustria ma al Cnel. Questo è un elemento che dovrebbe dirci alcune cose importanti: 1) il Cnel, anche in virtù della guida illuminata del Prof. Tiziano Treu, sta tornando ad avere un ruolo importante dopo aver rischiato di chiudere con la riforma costituzionale bocciata dagli italiani nel 2016; 2) le Parti sono consapevoli che devono trovare non rotture ma soluzioni; 3) le Parti sanno che le intese che troveranno possono avere una ricaduta, possono cioè superare l’orizzonte metalmeccanico.
Soprattutto in ragione del punto 3, la vertenza va guardata con molta attenzione. È evidente come una richiesta di aumento del +8% e il principio del salario aziendale siano fattori antitetici: o una delle due Parti cederà all’altra, o la vertenza si risolverà, ancora una volta, sul terreno dell’innovazione. Potrebbe risultarne un accordo riformatore per l’intero sistema. La componente territoriale è fattore macroscopico, i tedeschi lo hanno capito da tempo. Nel nostro Paese, da nord a sud, vi sono specificità di produzione di ricchezza, di sua distribuzione e, anche, di costo della vita. Se i metalmeccanici decidessero di affrontare questo aspetto di cui per la verità parliamo da diverso tempo, questo potrebbe rivelarsi l’inizio di un profondo rinnovamento per l’intero sistema contrattuale.
Comunque vada, una cosa è certa: nel nostro Paese, le innovazioni più significative per lavoro e impresa arrivano sempre dal perimetro delle relazioni industriali.
Twitter: @sabella_thinkin