Il dibattito sul lavoro povero e sul salario minimo fissato per legge rischia di fare perdere di vista una riflessione più attenta alle tante realtà territoriali. Da questo punto di vista è stato interessante un convegno organizzato a Milano dalla associazione Adesso! con il supporto scientifico del centro di studi economici Tortuga, che insieme hanno proposto una riflessione sul “giusto salario”.



I dati presentati indicano che il salario orario per i lavoratori della città di Milano va dagli 8,45 euro per la fascia più bassa ai 30,82 per il 10% più ricco con un valore medio a 13,21 euro. Il 10% della fascia più povera è sostanzialmente allineato con quanto viene pagata un’ora di lavoro nella area metropolitana e nel resto del Paese (rispettivamente 8,57 e 8,27 euro ora). Sia la media della paga oraria che quella per il 10% superiore sono oltre i valori dell’area metropolitana e dell’intero Paese. La differenza aumenta al crescere della paga oraria. Dal 12,50% del valore medio al 33% della fascia superiore.



Anche fra i lavoratori senza nessun titolo di studio, pur con valori inferiori, si attenuano le differenze fra le diverse aree territoriali, ma fra la fascia inferiore e quella superiore si va da 7,84 euro ora a 18,85 e il valore per la fascia mediana è di 11,53.

La paga oraria va quindi confrontata con il costo della vita. Misurato il fabbisogno di reddito per tre fasce di nuclei famigliari, single, coppia con figlio o senza, si arriva a stimare che il costo per un single a Milano è pari a 1.175 euro mensili che corrispondono a un salario di 8,3 euro ora per un lavoro full time. La differenza di fabbisogno mensile per i milanesi rispetto al resto del Paese sta fra il 20% della famiglia con figlio al 22% per la coppia e il 23% per i single. Anche con i residenti dell’area metropolitana vi sono forti differenze causa i costi dell’abitazione che assorbono ben più del differenziale salariale.



L’ipotesi avanzata dai promotori dell’incontro è di portare anche nella città di Milano l’esperienza di Londra dove è entrato in funzione un accordo volontario fra amministrazione e parti sociali per fissare il London Living Wage. Si tratta di un salario di sussistenza basato su un accordo volontario che integra il salario minimo nazionale con l’obiettivo di garantire uno standard di vita dignitoso adattando il salario al costo della vita della città.

Il livello è fissato da una commissione con le rappresentanze politiche e sociali e tiene conto, essendo finalizzato a un livello di vita dignitoso e non alla mera sussistenza, di 17 panieri di consumo riferiti alle tipologie di famiglie londinesi. Attualmente il salario di sussistenza londinese è a 13,15 sterline ora mentre quello nazionale è a 12 e il salario minimo nazionale è a 10,42. L’accordo territoriale è volontario e copre attualmente l’80% dei lavoratori londinesi. Il 20% non coperto appartiene alle fasce più deboli, part-time, donne, lavoratori senza qualifica e settori a basso valore aggiunto.

Il dibattito è servito per calare nella realtà italiana le suggestioni fornite dai dati milanesi e dall’esempio londinese. Va smarcato subito il fatto che il dibattito focalizzato sul solo salario minimo fissato per legge non risponde alla complessità del dibattito pubblico necessario per affrontare il tema delle diseguaglianze e del lavoro povero. Nè la risposta legislativa, né tantomeno l’introduzione del salario minimo tramite delibera comunale sono in grado di rispondere alla domanda di come assicurare un giusto salario, quello capace di assicurare un livello di vita dignitoso.

Gli aspetti del problema di cui tenere conto sono molteplici. Lasciamo da parte il fatto che le decisioni prese da un’amministrazione comunale hanno molti vincoli e non possono certo influire sulle regole passate. Anche pensando solo a comportamenti futuri si sommano questioni politiche e ragioni economiche. Quelle politiche riguardano l’ambito della contrattazione. Siamo un Paese dove i salari e le tutele del lavoro sono per larghissima parte determinate dalla contrattazione sindacale. È questo un pregio che va preservato contro le teorie della disintermediazione che creano un impoverimento del tessuto sociale e della crescita civile.

Se si condivide che le scelte devono servire anche a rafforzare il dialogo sociale e la contrattazione, i valori salariali di riferimento devono derivare da quanto fissato dai contratti individuando a quale va fatto tassativamente riferimento nei bandi di appalto e fornitura di servizi. In attesa che anche a livello nazionale si risolva il tema della maggiore rappresentatività dei contratti si può già inserire l’indicazione nei bandi di appalto. Si possono aggiungere altre scelte per favorire i servizi di qualità con lavoro di qualità escludendo tassativamente il ricorso ad appalti di somministrazione di lavoro che prevedano ribassi nei costi rispetto ai minimi contrattuali di categoria.

Sono però due le questioni che il dibattito ha messo in luce con chiarezza. L’esempio londinese mostra come la creazione di un ambito di analisi e proposte su povertà e diseguaglianze capace di coinvolgere le forze intellettuali e sociali della città crea una maggiore consapevolezza nei cittadini sulla realtà economica della propria città e per sviluppare proposte su come affrontare i problemi emergenti. A questa consapevolezza fa seguito la possibilità di interventi sulla base di accordi locali dove alla crescita dei salari può corrispondere per le imprese un guadagno in termini di certificazione di qualità sociale. Ne segue per l’amministrazione comunale una responsabilità politica che la vede protagonista nel gestire la sede di elaborazione delle proposte e anche nel proporre politiche che affrontino il problema dell’esplosione dei costi della vita cittadina.

Si tratta di dare vita a un patto per uno sviluppo più equo e solidale della vita della metropoli che potrebbe partire da uno studio condiviso per l’individuazione del Milan Living Wage.

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