La crisi di governo ha inevitabilmente spiazzato il Meeting di Rimini, l’evento che da parecchi anni svolge il ruolo che in un tempo ormai lontano spettava, alla ripresa post-feriale, alla Festa nazionale dell’Unità, dove si ritrovava il mondo della politica e della cultura a omaggiare il Pci. Oggi i ministri in carica vanno a spegnere le luci, mentre i leader che si contendono i voti degli elettori presentano a un uditorio attento, serio e impegnato le loro promesse. Vi sono poi argomenti specifici che articolano la “passione” a cui è dedicato il Meeting di quest’anno. Nell’incontro dedicato alla Passione del Lavoro ieri è emerso chiaramente che il Paese sta attraversando la terra di nessuno che separa la fine del Governo Draghi e l’incertezza del domani. 



Il ministro Andrea Orlando, in collegamento, si è confrontato, tra gli altri, con il Segretario generale della Cisl Luigi Sbarra e ha esposto le linee sulle quali – a suo dire – aveva intenzione di muoversi il Governo, convincendo molti di coloro che lo ascoltavano che per fortuna quella esperienza si era interrotta. Del resto non è un mistero che la linea del titolare del Lavoro, molto attenta alle proposte della Cgil, non era spesso condivisa dal Premier Mario Draghi, com’è emerso in molte circostanze. Anche se, in materia di lavoro e previdenza, Draghi non ha mai voluto prendere di petto i sindacati, preferendo accogliere le loro istanze, ma temporeggiare, attraverso la convocazione di incontri tecnici di approfondimento che rimandavano il confronto politico. 



Orlando ha sostenuto l’opportunità di un salario minimo legale sia per assicurare dei trattamenti dignitosi non solo ai lavoratori privi della copertura della contrattazione collettiva, ma anche a tutela del c.d. lavoro povero che, a suo avviso, esiste anche nell’ambito della contrattazione collettiva che ad avviso del ministro non sempre prevede salari adeguati e non solo per quanto riguarda le retribuzioni dei contratti che non vengono rinnovati da anni. Addirittura l’ipotesi del salario minimo si intreccerebbe con i minimi tabellari previsti dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni maggiormente rappresentative nell’ambito dei diversi settori; in sostanza una tale soluzione finirebbe per rendere erga omnes le tabelle salariali negoziate in regime di diritto comune e di autonomia contrattuale, sulla base di una legge che stabilisca i criteri di verifica della rappresentanza e della rappresentatività. 



È toccato a Sbarra difendere un sistema di relazioni industriali ancora solido e maggiormente garante di una tutela contrattuale nell’ambito europeo e dell’Ocse. Ad avviso del leader della Cisl è la strada della contrattazione e della partecipazione quella da seguire partendo da un patto sociale che coinvolga il Governo (quello futuro senza sentirsi condizionati dalla sua composizione) e tutte le parti interessate per fare fronte alle emergenze della crisi. Sbarra si è spinto fino a chiedere l’attuazione dell’articolo 46 della Costituzione che assumeva quell’obiettivo, magari in un’ottica figlia di quel tempo, ma ancora in grado di fornire un quadro di riferimento. Anche per quanto riguarda le diverse forme contrattuali, Sbarra ha affermato che spetta ai sindacati la relativa disciplina.

Purtroppo la posizione della Cisl è minoritaria nel mondo sindacale. Sta crescendo non solo in teoria ma anche in pratica una linea di “statalizzazione” delle politiche del lavoro, siano esse retributive o normative. Come abbiamo già ricordato, col pretesto del “ce lo chiede l’Europa” (un’affermazione a suo tempo aborrita da chi la usa adesso con questo fine), si fa strada l’idea di introdurre anche in Italia lo smic (il salario minimo legale). In verità la proposta di direttiva, che sta per essere varata mediante le procedure di codecisione delle istituzioni comunitarie, non solo non impone degli obblighi, ma anche la sollecitazione a legiferare è rivolta ai Paesi dove i lavoratori si avvalgono di una copertura a opera della contrattazione collettiva inferiore all’80% degli interessati; per fortuna non è il caso dell’Italia, per tanti motivi che si perdono nelle vicende del secolo scorso. 

La svolta sindacale in tema di salario minimo legale nasconde una volpe sotto l’ascella: stabilire un livello retributivo obbligatorio che non si limiti a dare copertura ai settori che non ne hanno una adeguata nell’ambito dei loro rapporti di lavoro, ma che divenga la base per miglioramenti salariali generalizzati e innesti un meccanismo semiautomatico di adeguamento delle retribuzioni all’inflazione, nelle mani del Governo e quindi di un decisore che è più influenzabile e disponibile delle associazioni imprenditoriali. 

Ma la vera novità riguarda il conclamato taglio del cuneo fiscale e contributivo. Ormai è chiaro che per fare un intervento diventa necessario fiscalizzare quote crescenti di contribuzione sociale, alla faccia della santificazione del calcolo contributivo identificato come lo strenuo garante di una corrispettività tra contribuzione versata (a questo punto surrogata da supporti di finanza pubblica) e importo della pensione. Il finanziamento del sistema pensionistico assumerebbe un prevalente profilo fiscale anche per quanto riguarda le prestazioni di natura e origine previdenziale. 

Infine, viene agitato lo spauracchio dei c.d. contratti pirata, senza precisare che si tratta di settori molto ristretti del mercato del lavoro e che il fenomeno può essere debellato con gli ordinari mezzi a disposizione a partire dall’azione dei sindacati. Sono i dati a confermare che si tratta di un fenomeno circoscritto, contenuto e contenibile, anche se ben 353 CCNL su 933 (pari al 38%) sono stati sottoscritti da firmatari datoriali e sindacali non rappresentati a Cnel. Tali contratti risultano, tuttavia, applicati a 33 mila lavoratori su oltre 12 milioni (si tratta di circa lo 0,3%). Ciò mentre i 128 contratti collettivi sottoscritti da soggetti datoriali e sindacali rappresentati al Cnel, pari al 14% dei Ccnl vigenti, riguardano poco più di 10 milioni e 660 mila lavoratori, circa l’87% del totale. Si registrano, infine, 450 contratti pur sempre sottoscritti da organizzazioni sindacali rappresentate al Cnel e da organizzazioni datoriali non rappresentate (pari al 48% del totale), ma comunque rispettose dei patti sottoscritti. 

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