Historia magistra vitae. Il detto è scolpito nella memoria di chiunque abbia fatto le scuole alcuni anni or sono e oggi si ritrovi il cuoio capelluto caratterizzato o da una calvizie per nulla incipiente o da una inesorabile canutaggine. Che poi Cicerone non abbia mai inteso dichiarare quel che noi gli facciamo riferire, vabbè, si tratta solo dell’ennesima dimostrazione di come l’uomo sappia trarre quel che vuole da qualunque miniera. Al punto da inventare quel che non c’è.



Ora noi non ce l’abbiamo con il grande arpinate, e nemmeno con la nostra professoressa di Liceo. Ma ecco, non abbiamo potuto non pensare a quella massima, checché le si faccia proferire, quando abbiamo visto che anche quest’anno, come da inveterata tradizione, tanto si fa tanto si dice che alla fine il rinnovo del Contratto nazionale dei metalmeccanici si erge, viene erto per la verità, a simbolo di un’intera stagione.



Intendiamoci, siamo ancora un Paese di fabbriche, per fortuna. Siamo ancora una potenza produttiva (poi che si sia la seconda, la terza o l’ennesima nel mondo o in Europa è altro discorso e per nulla scontato: ma anche qui la narrazione, come si usa dire, fa premio sovente sulla realtà) e dobbiamo mantenerci così. Magari anche migliorare. Ma davvero il contratto delle tute blu è il contratto? Davvero nulla è mutato dal 1968? Davvero su di esso si misurano tutti gli altri ed esso rappresenta la frontiera più avanzata del contrattualismo odierno?

Lasciatecene dubitare. Non perché non contino i numeri, ma perché la realtà è assai più articolata e mutata di quanto si osi dire e pensare. E ciò per diverse ragioni. Proviamo a riflettere.



Anzitutto oggi assai più di ieri, e certamente molto più dell’altro ieri, un sistema produttivo è sempre un’integrazione di diversi settori, di figure afferenti a diversi comparti, e dunque meritevoli di essere tutelate da accordi più specifici, meglio definiti e che meglio rappresentano obblighi e diritti di ognuno. Già, ma come fare? Come rispondere ai bisogni locali in un’ottica nazionale quando non internazionale?

Ecco appunto: un secondo motivo per cui, a nostro avviso, andrebbero ripensate forme e contenuti di tanti contratti nazionali, è proprio la sempre maggiore interdipendenza con il mondo. C’è chi già usa questo argomento per chiedere che i salari non aumentino, o per strepitare a gran voce di non essere in grado di sostenere la competizione internazionale. Ci si permetta: siccome qualche tempo all’estero lo abbiamo trascorso, e siccome queste frasi le abbiamo sentite pronunciare dagli imprenditori di ogni nazione, lingua e cultura, chiediamo per favore che si passi a qualche argomento meno desueto e meno parziale e si trascorra a discutere seriamente.

Ma un terzo motivo che ci impedisce di vedere nel pur importante Contratto nazionale dei metalmeccanici, la chiave di volta di ogni contrattualità, è proprio la sua stessa natura. Oggi i contratti di comparti come il terziario o il commercio, sono assai più avanzati dal punto di vista della flessibilità e della gestione, di istituti non solo salariali ma soprattutto delle coperture e dei fondi. Il Contratto chimico, sempre per portare qualche esempio, di contro da tempo è divenuto il luogo della sperimentazione di nuove forme, anche di gestione compartecipata, oltre che per gli Istituti che lo compongono, e da esso si ha lo sguardo su un settore all’avanguardia da ogni rispetto.

Ma allora, se così fosse, perché un tale braccio di ferro intorno al rinnovo del contratto nazionale della tute blu? Forse ch’esso ha riflessi vitali su altri comparti dal punto di vista salariale? Non lo neghiamo, ovviamente, ma anche qui oggi difficilmente esso è un benchmark per gli aumenti delle buste paga degli italiani.

Temiamo invece che quanto sta avvenendo, le difficoltà che gli imprenditori frappongono al rinnovo, le minacce di chiusura (politica, sembra di capire), siano legate non a una nobile ragione, appunto la centralità e la funzionalità paradigmatica di quell’intesa, ma a un più banale calcolo politico, una ragione che per ora non definiremmo miope, ma solo perché vogliamo sperare che chi si sta incaponendo, in particolare il nuovo capo di Confindustria, sia immune da tale difetto visivo, o almeno durante le trattative porti un correttivo per la vista.

Invocare il Covid, la pandemia, la crisi mondiale, la chiusura delle imprese, temiamo cioè sia solo un diverso modo per premere sul Governo: per trasferire insomma altri costi allo Stato e chiedere che Pantalone sborsi qualcosa dalle sue capienti (?) tasche. Lo diciamo perché siamo rimasti colpiti da quel nome, il “Sussidistan”, che è cominciato a circolare sui giornali “de la maison” con imbarazzante coincidenza: e siccome siamo andreottiani, ci è subito scattato il dubbio: vuoi vedere che quando i soldi vanno alle famiglie sono sussidi, quando vanno alle imprese, anche a quelle che chiudono i battenti con sospetta fretta e furia, sono “fondi dovuti”?

Insomma, gestire i rapporti con il Governo premendo sui sindacati e sperando di portare a casa altri fondi per sé stessi senza mettere sul tappeto nulla, non sarà cosa bella né nuova, ma non ci colpisce più di tanto. Bonomi non è mica il primo, né temiamo sarà l’ultimo a provarci. Ma sostenere che le richieste sindacali in questo momento siano irricevibili, fuori mercato, che portino alla rovina delle imprese, beh questo sì che ci sembra del tutto nuovo in un simile contesto: perché le cifre sono davvero ragionevoli, e perché esso indica un’indisponibilità di fondo che mette in discussione un’intera stagione contrattuale e che schiaccia le parti sulle ali estreme. Cioè che oggettivamente non fa del bene né alle imprese, né alla nazione in generale.

E allora insorge la domanda: non è mica che Confindustria, cedendo a una vecchia tentazione (ecco, qui scatta la “historia magistra vitae”), si è messa in politica e sta tirando la volata a qualcuno da cui si aspetta trattamenti, e finanziamenti, più generosi? In fondo, come diceva un famoso presidente del Consiglio, occasionalmente anche fondatore del Centro di Studi Ciceroniani di Arpino, “a pensar male si commette peccato, ma sovente ci si indovina”.

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