L’Unione europea si accinge a riscrivere alcune fondamentali regole che negli ultimi decenni hanno disciplinato le relazioni tra gli Stati membri e che sono state, opportunamente, sospese negli anni della pandemia. La Commissione europea ha pubblicato il 9 novembre 2022 una proposta di riforma della governance economica che aggiorna il Patto di stabilità e crescita e il 1° febbraio 2023 un piano industriale verde che modifica la normativa in materia di aiuti di Stato mentre la Banca centrale europea, già da alcuni mesi, ha orientato in senso restrittivo la propria politica monetaria per contrastare la fiammata inflazionistica.
Le regole proposte, accentuando il grado di flessibilità, sembrerebbero andare incontro alle richieste avanzate da vari nazionalisti di lasciare più spazio alla sovranità dei Governi nazionali. Eppure, proprio il Governo Meloni, in vista del Consiglio europeo del 9-10 febbraio 2023, è stato forse il primo ad avanzare critiche e perplessità intravedendo nel nuovo scenario europeo una grave minaccia per l’Italia.
Cosa dovrebbe fare l’Italia?
Per rispondere, sia pure in modo del tutto parziale, sono necessari tre brevi e sequenziali passi: ricordare quali erano le vecchie e rigide regole, accennare alle nuove e più flessibili regole proposte dalla Commissione e dare conto delle critiche del Governo Meloni.
Alla fine della Seconda guerra mondiale, alcuni Paesi europei scelsero di imboccare la via della graduale integrazione economica nella convinzione che, prima o poi, avrebbe condotto a una forma di unione politica federale. La prima tappa del processo di unificazione europea è stata la costruzione di un mercato unico o interno in cui sono riconosciute e tutelate quattro libertà: la libera circolazione dei beni, dei servizi, delle persone e dei capitali. La costruzione, iniziata nel 1950, con l’ideazione della Comunità del Carbone e dell’Acciaio (Ceca), è stata (simbolicamente) ultimata nel 1990 con la liberalizzazione dei movimenti di capitale ed è stata accompagnata da una normativa, sempre più stringente, che vietava gli aiuti di Stato a favore di imprese nazionali. Lo scopo era proprio quello di salvaguardare l’unicità e l’integrità del mercato interno europeo. Se, per esempio, lo Stato italiano, come avveniva in passato, avesse potuto continuare liberamente ad aiutare le imprese nazionali (dalla Fiat ad Alitalia) a danno dei competitor avrebbe distorto il mercato europeo creando una forma di concorrenza sleale.
Nell’aprile del 1989, ancor prima quindi della caduta del Muro di Berlino, un Comitato presieduto da Jacques Delors (al tempo Presidente della Commissione europea) consegna un Rapporto in cui è delineata la costituzione di una Unione economica e monetaria. In quel momento è ancora in vigore il Sistema monetario europeo che assicura una certa stabilità nel rapporto di cambio tra le diverse valute nazionali europee. La ragione sostanziale per cui l’autorevole Comitato ritiene necessario adottare una moneta unica europea è di rendere “irreversibile”, così è scritto nel Rapporto, il processo di integrazione monetaria. Si è consapevoli che un mercato unico, per funzionare bene, ha bisogno di un’unione monetaria e che i regimi di cambi fissi possono spezzarsi, come accadde a quello di Bretton Woods nel 1971 e come accadrà al Sistema monetario europeo nel 1992 mentre difficilmente si disintegra una moneta unica.
Il 7 febbraio 1992, dodici Paesi europei firmano il Trattato di Maastricht che, oltre a fondare l’Unione europea, progetta la costruzione dell’Unione economica e monetaria in linea con quanto suggerito dal Rapporto Delors. Il successivo Trattato di Amsterdam del 1997 recepisce (rendendolo permanente) il Patto di stabilità e crescita che definisce il pacchetto di regole necessarie per accedere alla costituenda Unione economica e monetaria esigendo, in particolare, che i Paesi membri preservino un rapporto deficit/Pil non superiore al 3 per cento e debito/Pil non superiore al 60 per cento. La ragione sostanziale è che soltanto Paesi con economie non troppo divergenti (con deficit e debiti eccessivi) avrebbero potuto condividere una stessa moneta e gestire una politica monetaria comune, affidata alla Bce, con l’obiettivo prioritario di assicurare la stabilità dei prezzi, successivamente misurata con un tasso annuale di inflazione prossimo al 2 per cento. La seconda tappa del processo di unificazione europea è proprio la costruzione dell’Unione economica e monetaria che può dirsi ultimata il 1° gennaio 2002 quando l’euro esce (fisicamente) dai bancomat ed entra nei portafogli dei cittadini europei.
Nel 2008 esplode la Grande Recessione che, rapidamente, dagli Stati Uniti si propaga all’Europa. Mentre il neopresidente americano Barack Obama vara uno straordinario pacchetto di aiuti statali, l’Europa esige il rispetto delle regole, impone l’austerità e manda la troika in Grecia. Oggi possiamo dirlo: fu un errore, perché l’Unione europea non si rese conto che quella del 2008 non era una normale e passeggera crisi, ma una profonda e prolungata recessione, che richiedeva azioni straordinarie.
Oggi possiamo anche dire che l’Europa ha imparato la lezione. Nel 2020, quando è comparso, del tutto inatteso, il cigno nero della pandemia le autorità europee non hanno esitato un attimo a sospendere le stringenti regole e a varare un piano straordinario di aiuti. Sono stati immediatamente sospesi il Patto di stabilità e crescita e la normativa in materia di aiuti di Stato, consentendo e anzi sollecitando i Governi nazionali a indebitarsi nella misura necessaria per fornire aiuti a famiglie e imprese, la Bce ha proseguito nel suo programma di acquisti di titoli di Stato, legittimata anche dal fatto che il tasso di inflazione era nettamente al di sotto del 2 per cento, ed è stato approntato un piano straordinario di investimenti, noto come Next Generation Eu, finanziato ricorrendo anche a forme di debito comune europeo.
In breve, sul primo punto, per costruire e preservare un mercato interno e un’Unione economica e monetaria sono state adottate rigide regole, che prevedevano, in particolare, il divieto di aiuti di Stato e il rispetto di parametri fiscali. Le rigide regole sono state sospese all’inizio del 2020, quando è esplosa la pandemia, e ora si discutono le proposte di riforma avanzate dalla Commissione europea.
Il 9 novembre 2022 la Commissione europea ha proposto una riforma del Patto di stabilità e crescita che prevede regole più flessibili. Innanzitutto la sorveglianza si attenua nei confronti dei Paesi che presentano bassi livelli di indebitamento e si accentua sui Paesi con debito alto e tra questi, inutile sottolinearlo, l’Italia, che presenta un rapporto debito/Pil intorno al 145 per cento e cioè più del doppio rispetto alla soglia prevista a Maastricht. Anche i Paesi fortemente indebitati verrebbero però a godere di una maggiore flessibilità. Fino al 2020, i Paesi aderenti all’Unione economica e monetaria si impegnavano a conseguire un deficit strutturale (il deficit pubblico corrispondente al Pil potenziale) pari a zero, in modo da poter accumulare, durante le fasi recessive, un rapporto deficit/Pil non superiore al 3 per cento. Il Pil potenziale è il livello massimo di produzione raggiungibile da un’economia utilizzando in modo efficiente le risorse esistenti. Ma è una stima, elaborata dagli economisti della Commissione, che ha sempre dato luogo a polemiche, soprattutto perché su quella stima la Commissione autorizzava o negava, annualmente, i livelli di indebitamento programmati dai governi nazionali. Ora, invece, le autorità europee dovrebbero limitarsi a monitorare la cosiddetta “spesa primaria netta”, che è una grandezza osservabile, calcolata detraendo dalla spesa pubblica le maggiori entrate fiscali e gli oneri per gli interessi sul debito e i sussidi alla disoccupazione. I Governi con alto debito pubblico dovrebbero predisporre un piano di rientro basato sul contenimento della spesa pubblica. Il piano potrebbe essere quadriennale o settennale, se il Paese si impegnasse a varare riforme e investimenti pro-crescita. Vi sarebbe una maggiore flessibilità in termini di orizzonte temporale, ma resterebbe il vincolo di sempre: dove reperire le risorse necessarie per promuovere la crescita evitando che i tagli alla spesa inneschino una spirale recessiva?
Il 1° febbraio 2023 la Commissione ha pubblicato la Comunicazione che delinea un piano industriale verde sia per sostenere la transizione energetica sia per contrastare la sfida degli Stati Uniti che, con l’Inflation reduction act (Ira), hanno stanziando 369 miliardi di dollari di incentivi a favore di imprese americane impegnate in investimenti verdi. La proposta della Commissione prevede un allentamento delle regole in materia di aiuti di Stato fino al 2025 per consentire ai Paesi che possono, e cioè a basso debito, di incentivare le imprese nazionali a effettuare investimenti verdi (dal riciclo di materie prime al fotovoltaico). Il problema è che i Paesi che possono sono pochi e sono soprattutto i due più grandi: Francia e Germania. Si stima che negli anni della pandemia, nel cosiddetto “quadro temporaneo di crisi”, l’Unione europea abbia autorizzato 672 miliardi di euro per aiuti di Stato: di questi, il 77 per cento del totale sono stati erogati da Francia e Germania. L’allentamento delle regole rischia quindi di distorcere il mercato interno europeo mettendo in una condizione di vantaggio imprese francesi e tedesche.
C’è poi da considerare il fatto che negli ultimi mesi la Bce, in presenza di un tasso di inflazione superiore al 10 per cento, molto più alto quindi di quel 2 per cento indicato come target della politica monetaria, si è vista costretta ad alzare i tassi di interesse interrompendo il sostanziale sostegno dato negli anni della pandemia ai Paesi europei e innanzitutto all’Italia.
In breve, l’annunciato allentamento delle regole (del Patto e degli Aiuti), unitamente al cambio di marcia della Bce, rischia di rafforzare i forti e di indebolire i deboli.
Il Governo Meloni, in vista del Consiglio europeo del 9-10 febbraio, ha inviato a Bruxelles una nota in cui, da un lato, critica l’allentamento delle regole in tema di aiuti di Stato, proprio per l’effetto distorsivo che provocherebbe e, dall’altro, propone la costituzione di un fondo sovrano europeo per finanziare investimenti verdi.
Il Governo italiano dice a francesi e tedeschi: siate meno nazionalisti e più europeisti. Chissà, forse pensa che solo italiani, ungheresi e polacchi conservino il diritto di essere nazionalisti mentre sugli altri ricada il dovere di essere europeisti e cioè di tutelare l’interesse comune. Il Governo italiano non può proclamare il diritto a tutelare l’interesse nazionale e vietare quello stesso diritto ad altri paesi. Perché i tedeschi, che possono, dovrebbero rinunciare ad aiutare le imprese nazionali e destinare quelle risorse a cofinanziare il nostro debito? Il motivo è che è nel loro stesso interesse avere un’Europa più forte, così come è nell’interesse dell’Italia e degli altri Paesi europei.
La Meloni ha quindi ragione quando scrive che servono più fondi europei da destinare al finanziamento di investimenti verdi. Dopo aver costruito il mercato unico e l’unione monetaria, occorre proseguire nella costruzione, iniziata col Next Generation Eu, di un’unione fiscale europea che disponga di maggiori risorse finanziarie. Quello che si fa fatica a capire è che, per avere più risorse europee, occorre avere più democrazia in Europa e quindi meno nazionalismi con un ulteriore trasferimento di sovranità verso il centro, ovviamente sempre in conformità al principio di sussidiarietà.
Il 6 dicembre scorso la Corte costituzionale tedesca, respingendo un ricorso, ha riconosciuto la legittimità del Next Generation Eu, che risponde principalmente a esigenze umanitarie, ma ha sollevato il dubbio che il piano, vincolando l’erogazione dei fondi a investimenti per la transizione energetica e digitale, sia andato oltre un’azione di contrasto alla crisi sanitaria. Ovvero: il debito comune si può giustificare solo per fronteggiare emergenze umanitarie, altrimenti serve altro.
In conclusione cosa dovrebbe fare l’Italia? Diventare più europeista. Col Next Generation Eu è iniziata la terza tappa del processo di unificazione europea che richiede la costruzione di una solida unione fiscale con un più consistente budget comunitario e il ricorso a stabili forme di debito comune. Ma ciò, a sua volta, esige l’adozione di un modello più avanzato di unione federale. Nei Trattati di Roma, e in quelli successivi, ricorre uno stesso incipit: costituire un’unione sempre più stretta (“an ever closer union”) tra i popoli europei. Oggi abbiamo capito che forse è possibile concepire un’Europa differenziata con Paesi che stanno solo nel mercato unico (ovviamente rispettando le quattro libertà), altri che aderiscono anche all’eurozona (accettando i relativi vincoli) e altri, forse pochi, che danno vita a un’unione fiscale a base federale.
Se le nuove e più flessibili regole dovessero essere approvate, si delinea per l’Italia la minaccia di dover varare un piano di rientro dal debito eccessivo che, contenendo la spesa pubblica, comprimerebbe anche la già fragile crescita. Il Governo dovrebbe invece deliberare un piano settennale, comprensivo di riforme e investimenti, che punti alla crescita. Ma per finanziare gli investimenti occorrono le risorse e queste possono venire solo dall’Europa, da un’Europa più democratica, e dall’Italia stessa, un’Italia più giusta. Il Governo si impegni a rafforzare l’Unione europea e proponga una riforma fiscale che, abbandonando le facili illusioni della flat tax, preveda un incremento del gettito da destinare agli investimenti facendo pagare di più chi più ha e meno chi meno ha.
Chissà, forse anche la Meloni capirà presto che per difendere davvero l’interesse nazionale bisogna essere veri europeisti.
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