“Ridurre l’inflazione richiede non solo interventi decisi di politica monetaria, ma anche responsabili politiche di bilancio e azioni coerenti delle parti sociali”, parole che Ignazio Visco ha pronunciato in una lectio magistralis del novembre scorso e ora campeggiano sulla copertina del suo ultimo libro “Inflazione e politica monetaria”, appena uscito in libreria per i tipi di Laterza. Potremmo chiamarlo il succo della Visconomics, il lascito del Governatore della Banca d’Italia al suo successore, ma anche un giudizio aperto sui limiti della lotta all’inflazione combattuta solo con il rialzo dei tassi e la stretta del credito. È ancor più attuale oggi che i prezzi sembrano refrattari e il costo del denaro continua a salire con una rincorsa per alcuni versi inane e per altri pericolosa. La politica monetaria è centralizzata a Francoforte, le politiche di bilancio e dei redditi sono divise tra i singoli Paesi, chiudere questa asimmetria è il problema numero uno dell’Unione europea, a cominciare dalla riforma del Patto di stabilità.
L’impennata dei prezzi ha stupito i fedeli del monetarismo ortodosso. La Bce ha reagito con riflesso quasi pavloviano e ha continuato ad aumentare il tasso di riferimento: un quarto di punto che lo porta a 3,25% con un balzo notevole se si pensa che un anno fa erano ancora sotto zero (meno 0,50%). Nonostante questo rialzo continuo l’inflazione nell’eurozona è al 7%, eppure negli ultimi mesi i costi dell’energia e delle materie prime si sono ridotto in modo molto significativo. Christine Lagarde ha detto che il rincaro dei mutui non dipende da lei, così come aveva detto mesi fa che non è suo compito contenere lo spread. In realtà, si sente già nell’aria l’odore di credit crunch, di stretta nel credito. Anche le imprese cominciano a ridurre la domanda di prestiti e questo è sempre il campanello d’allarme che precede un rallentamento dell’economia, l’anticamera della recessione che in Germania s’avvicina a passi da gigante.
Il crollo dei nuovi ordini dell’industria manifatturiera tedesca in marzo, -10,7% rispetto a febbraio, è largamente peggiore delle previsioni ed è il più forte calo dall’estate 2020 in piena pandemia. Christoph Swonke, economista di DZ Bank interpellato dal Sole 24 Ore, mette in risalto la caduta degli ordini dall’estero (-13,3%) rispetto a quelli domestici (-6,8%). Pessimista anche l’economista Ralph Solveen di Commerzbank, che definisce il calo di marzo “un vero collasso”. L’industria manifatturiera sta soffrendo sempre di più a causa del rialzo dei tassi. Insomma, “i rischi di una recessione in Germania aumentano”. Un sostegno esterno potrebbe arrivare dal Governo. Il ministro dell’Economia e del Clima Robert Habeck è tornato a promettere sovvenzioni alle imprese per calmierare i prezzi dell’elettricità, tra i più alti in Europa.
Dunque, andiamo avanti così, in ordine sparso, chi può aiuta la propria domanda interna, chi non può s’arrangia? Questo atteggiamento, che sembra prevalente, è in aperto conflitto con uno dei precetti fondamentali dell’area euro e della stessa politica della banca centrale, cioè evitare una frantumazione del mercato interno, fonte primaria di instabilità. Madame Lagarde dovrebbe ripassare la lezione. Lo stesso debbono fare i Governi sui quali pesa la maggiore responsabilità, quelli che vantano la leadership europea.
Il suggerimento più sensato è orientarsi verso la Visconomics. Non lo può fare un solo Paese, quindi dovrebbe diventare la bussola dei Governi europei a cominciare da quelli uniti dalla stessa valuta. È possibile? La politica dei redditi (salari, profitti e prezzi) non può essere decretata a Bruxelles. Anche le imposte sono decise su base nazionale. Tuttavia, un coordinamento delle politiche di bilancio è possibile ed è stato già sperimentato con successo. Non c’era ancora l’euro, c’era il G7, nato proprio con questo obiettivo. Non sempre è riuscito a centrarlo, ma ha funzionato negli anni ’80 per affrontare l’impatto di un super dollaro sulle valute degli altri Paesi: quelli in via di sviluppo venivano colpiti da una catena di default, quelli più sviluppati subivano l’impatto di mercati finanziari in preda a crisi di nervi. Il crac valutario del 1992 quando crollarono la lira sterlina e quella italiana, fu invece un fallimento complessivo che aprì la porta all’euro.
In sede europea nel 2010 nacque un gruppo di coordinamento delle politiche fiscali, ma la crisi dei debiti sovrani del 2011 dimostrò che non aveva strumenti e ci volle solo la svolta di Draghi nel 2012, come sappiamo. Anche in tal caso, un caso virtuoso per molti versi, la politica monetaria dovette fare tutto da sola fino al punto da esagerare. I tassi negativi sono stati un passo eccessivo e l’indebitamento pubblico, pur giustificato dalla pandemia, è andato fuori controllo (non solo in Europa se oggi negli Usa ci si accapiglia su un rischio default).
Insomma il cammino è arduo, tuttavia la storia dell’ultimo decennio dimostra, sostiene Visco, che è arrivato il momento di cambiare strategia nei singoli Paesi, ma soprattutto nell’Unione europea.
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