La lista dei colpevoli per l’inflazione si è allungata ancora. Secondo il capo economista di Ubs, Paul Donovan, sottolinea Bloomberg in un articolo, “convincere i consumatori a non accettare passivamente gli incrementi dei prezzi è un modo potenzialmente più veloce e meno distruttivo per invertire l’aumento dei margini derivante dall’inflazione”.
Volendo parafrasare, parte della colpa dell’inflazione grava sui consumatori che continuano a comprare nonostante gli incrementi; la soluzione al problema, in questo schema, starebbe evidentemente in una singolare forma di protesta in cui i consumatori smettono di comperare volontariamente pur avendo disponibilità economiche sufficienti. Se i consumatori si “astenessero” per protesta le imprese non potrebbero far altro che abbassare i prezzi. In questo caso si produrrebbe spontaneamente lo stesso effetto finale di impoverimento in attesa di un aumento dei consumi a seguito degli sconti. Comunque le imprese dovrebbero essere punite.
L’inflazione ha cause moltiplici, ma affonda le radici nei lockdown e nelle politiche monetarie e fiscali che sono seguite. Le imprese si sono ritrovate prima con un vuoto di domanda repentino e completamente imprevedibile e poi con un’esplosione perché dosi da cavallo di stimoli fiscali e monetari hanno schermato i risparmi dei consumatori. La lezione appresa è che non ha nessun senso rischiare di produrre troppo per poi trovarsi i magazzini pieni e che ha invece infinitamente più senso, per la sopravvivenza delle imprese, privilegiare i prezzi. Più lo scenario è incerto, più questa politica ha senso. Lo scoppio della guerra e della crisi energetica, la rottura delle catene di fornitura globali che rende incerti gli approvvigionamenti non fa altro che rafforzare questo comportamento. Le imprese sono restie ad abbassare i prezzi anche per ragioni di profitto, ovviamente, e per uno scenario in cui le quote di mercato non sono minacciate, tanto più se i consumatori hanno risparmi o entrate a sufficienza, finora, per continuare a comprare.
I consumatori dovrebbero “punire le imprese”, rinunciando, si presume, ad andare in vacanza o a mangiare la carne, per imporre una revisione al ribasso dei prezzi. Bisognerebbe chiedersi come mai i consumatori siano stati in grado di far fronte agli incrementi e come mai le imprese non abbassino i prezzi perché, per esempio, sono calati i costi energetici. Nel primo caso la ragione sta nella risposta monetaria e fiscale ai lockdown; nel secondo è che la rivoluzione green, le tensioni geopolitiche e commerciali, la ristrutturazione delle catene di fornitura e l’uscita dal mercato del lavoro per limiti di età di un’ampia fetta di personale sono strutturalmente inflattive e non incentivano ad alcuna riduzione dei prezzi. La risposta al problema non sta innanzitutto in un’alchimia finanziaria e tantomeno in una sorta di scontro di classe del XXI secolo.
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