L’inflazione sta alimentando due fenomeni che vale la pena esaminare con attenzione. In due neologismi anglosassoni, molto riassuntivi, si tratta di shrinkflation e greedflation, il primo con evidenti riferimenti al “restringimento”, l’altro all’avidità. Sono sottoculture d’impresa adottate proprio in risposta all’aumento della spinta inflattiva sui prezzi delle materie prime, ma anche alle politiche delle banche centrali, che continuano ad alzare i tassi d’interesse, così rincarando il costo del denaro e rarificando gli affidamenti, nel tentativo di raffreddare l’economia infilatasi nella spirale.
L’inflazione, in sintesi, è una riduzione del potere di acquisto e, di conseguenza, è anche sinonimo di un aumento del costo della vita: significa che acquistare le stesse cose costa di più. Per i consumatori le strategie di risposta sono ben poche, salvo la concentrazione sulle spese obbligate e il taglio sul resto. Meno beni (durevoli e non), più servizi: a inizio anno già la quota di spesa per i primi si fermava al 49%, superata da quella dei secondi (51%). Per le imprese, invece…
Per le imprese c’è la shrinkflation, cioè mantenere inalterato il prezzo del prodotto, ma riducendone la quantità, se va bene, o la qualità, nel caso più negativo. È una pratica ben nota da anni, sulla quale sta indagando anche l’Antitrust, e coinvolge una serie di prodotti industriali, anche quelli che finiscono sugli espositori della GDO, dai detersivi alle scatolette di tonno, ai biscotti, alla pasta. Si vedrà se si tratta di comportamenti commerciali scorretti o meno, ma sembra che sarà ben difficile arrivare a un’accusa diretta: i prezzi e le grammature sono ben indicate nelle confezioni. La leva incide piuttosto sulle abitudini dei consumatori, sulla loro sostanziale distrazione nella spesa quotidiana. La grande distribuzione organizzata fornisce gli esempi più clamorosi, ma la shrinkflation è ravvisabile ovunque, anche nelle produzioni di altri beni, dalle forniture edili alla componentistica.
Il secondo fenomeno è la greedflation, cioè la rincorsa a mantenere o meglio aumentare le marginalità d’impresa, anche in presenza degli aumenti di energia e materie prime, con il rialzo dei prezzi finali. In Italia, però, almeno secondo uno studio di BankItalia, la crescita dei profitti delle imprese non dipenderebbe dalle speculazioni sui prezzi. Ma un’analisi della Bce, al contrario, calcola che nell’Eurozona almeno metà della fiammata dei prezzi nella seconda metà del 2022 sia stata determinata dall’incremento degli utili delle imprese. E il Fondo monetario internazionale rincara, affermando che la situazione dell’area euro va imputata proprio ai profitti delle aziende, anziché ai salari (praticamente fermi) dei lavoratori.
Tesi condivisa da più parti: il senatore di FI Dario Damiani, ad esempio, ha recentemente dichiarato che “in un momento difficile come questo non si sconfigge l’inflazione attraverso una rincorsa, una spirale di salari che rincorre l’inflazione. Si rischierebbe di generare un meccanismo che non avrebbe mai fine”. Praticamente una pietra tombale sopra il meccanismo automatico della scala mobile (introdotta nel 1945 e definitivamente soppressa nel 1992), che indicizzava i salari in funzione degli aumenti dei prezzi, una sincronia che molte proposte di legge avevano tentato di reintrodurre, senza successo. Capita così che oggi nei rinnovi dei Ccnl si debba comunque tener conto dell’inflazione, com’è successo il 16 scorso per i metalmeccanici, che si sono visti aumenti in busta paga quali adeguamenti ex post, dettati dal dato inflattivo di maggio (7,6%), dove l’incidenza dei prezzi energetici era ormai minoritaria.
Avidità d’impresa o no, dunque? Un recente sondaggio Market Live Pulse tra investitori e analisti finanziari sull’inflazione e la stretta monetaria (riportato da Money) rivela che secondo il 90% degli intervistati le società americane ed europee hanno aumentato i prezzi più dei costi dopo la pandemia. Non sono meccanismi originali: da sempre si parte da una contingenza effettiva per adottare misure che, sfumata l’emergenza, dovrebbero cessare. Ma è semplice verificare che nessun azienda intende oggi riabbassare i listini, nonostante il (leggero) calo dell’inflazione e quello più sensibile dei costi energetici. La spirale così si mantiene perfetta: un’inflazione autoreferenziale, al pari della burocrazia, che si alimenta di se stessa, tra effettive speculazioni, disinvolte pratiche di commercio, prezzi che continuano a lievitare sulla base di presunti rincari alla fonte, tassi d’interesse che si alzano ma che invece di calmierare i mercati finiscono con aggiungere polvere al fuoco.
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