Donald Trump vuole spostare i palestinesi in Egitto e Giordania. E in questo non si allontana dal piano che Anthony Blinken, segretario di Stato dell’amministrazione Biden, aveva proposto a entrambi i Paesi dopo il 7 Ottobre. Lo giustifica con la necessità di portarli a vivere in territori più tranquilli, ma di fatto, osserva Camille Eid, giornalista libanese, collaboratore di Avvenire, quella che ha in mente è una deportazione. Un’ipotesi che non fa i conti con la volontà dei palestinesi di rimanere nella loro terra, ma che potrebbe non incontrare una grande opposizione dal Cairo e Amman: proprio dagli americani arrivano a questi due Paesi gli aiuti per sopravvivere. La Giordania, dove i palestinesi sono già la maggioranza, diventerebbe una sorta di Stato palestinese, avverando un progetto caro alla destra israeliana e lasciando a Israele i territori di Gaza e Cisgiordania.
Trump vuole mandare i palestinesi in Egitto e Giordania, esattamente come aveva cercato di fare Blinken. Alla fine il piano israeliano rimane questo?
Questa proposta va chiamata con il suo vero nome: pulizia etnica. Trump stavolta la presenta ammantata di motivi umanitari: “I poveri palestinesi di Gaza patiscono da anni una vita piena di sofferenze, portiamoli altrove per dar loro un’esistenza dignitosa”. Ma questo vuol dire deportazione. Nella Striscia non ci sono più infrastrutture, scuole, ospedali e tutto il resto, ma i palestinesi hanno già dato la loro risposta tornando verso le loro abitazioni, anche se distrutte. Appena è stato aperto il valico di Netzarim, si sono riversati in strada per tornare al nord di Gaza, anche se l’80% di loro sa che le loro abitazioni non stanno più in piedi. “Piuttosto che andare altrove – dicono – preferisco piantare una tenda davanti a casa mia”, dimostrando un attaccamento alla terra che evidentemente Trump non ha nel suo Dna.
Il presidente americano però insiste sulla sua proposta, anche se le risposte dei Paesi interessati sono negative. Si punta comunque verso questa direzione?
Vengono proposti piani di deportazione simili a quelli dell’800 o di fine ’900. Trump ha parlato con il presidente egiziano Al Sisi e con il re giordano Abd Allah, chiedendo di accogliere un milione e mezzo di palestinesi: talvolta l’America esprime il peggio di quella che è la mentalità colonialista. Infatti, attraverso gli aiuti economici o militari tiene in scacco sia l’Egitto che la Giordania. Amman vive del sostegno americano o dei Paesi del Golfo e gli USA hanno chiuso il rubinetto degli aiuti all’estero, tranne che per Israele ed Egitto. Oltretutto, Trump sta chiedendo di subire questo esodo proprio a due Paesi alleati, che hanno firmato anche accordi di pace con Israele e hanno fatto di tutto per accontentare gli Stati Uniti.
Nonostante questo, Giordania ed Egitto sono Paesi molti diversi.
Il presidente americano dice che per l’Egitto, che ha più di 100 milioni di abitanti, non dovrebbe essere un problema accogliere un milione di persone in più.
Ammesso e non concesso che si possa sostenere questo discorso, com’è invece la situazione per la Giordania?
Per la Giordania il discorso cambia, soprattutto perché sappiamo che lo stesso piano che si vuole attuare a Gaza si riproporrà con i palestinesi della Cisgiordania, che hanno legami storici con Amman. Il presidente egiziano Al Sisi, comunque, potrebbe trattare, come ha dimostrato nel momento in cui si parlava di aprire il valico di Rafah, agevolando l’esodo dei palestinesi anche attraverso la costruzione di villaggi nel Sinai.
L’Egitto, insomma, nonostante il no iniziale, potrebbe scendere a patti con Trump?
Non voglio fare il processo alle intenzioni, ma Al Sisi potrebbe cercare di discutere sul prezzo: la mia impressione è questa. L’anno scorso la UE sembrava orientata a cancellare i debiti egiziani in cambio di una disponibilità ad accettare i palestinesi.
Cosa cambierebbe per la Giordania se dovesse accogliere altri palestinesi?
Più della metà della sua popolazione è composta da palestinesi. Si preparerebbe il terreno per fare della Giordania lo Stato dei palestinesi.
Un’idea cara da sempre alla destra israeliana.
Sono stato recentemente in Giordania e non si era ancora spenta la polemica avviata dopo la pubblicazione delle cartine diffuse da un sito ufficiale israeliano, in cui parte della Giordania era compresa nella Terra promessa di Israele. Il progetto che si vorrebbe attuare ora sarebbe questo: diminuire la pressione demografica nella Striscia dando a questa ipotesi una veste umanitaria. Dopodiché, quando anche la Cisgiordania verrà trasformata in una seconda Gaza, si dirà ai palestinesi: “Cosa ci state a fare in un posto così poco sicuro? Perché non ve ne andate da un’altra parte per vivere in santa pace?”. Non hanno capito, però, che i palestinesi hanno imparato la lezione del 1948: preferiscono rimanere anche in una situazione di estrema difficoltà.
Il controesodo di 500mila persone che stanno tornando verso i loro luoghi di origine a nord di Gaza è già una risposta a Trump?
Certo, una risposta indiretta ma chiara. Se i palestinesi non se ne vogliono andare, cosa faranno? Li deporteranno con la forza? Pure la popolazione del sud è rientrata nei luoghi abitati prima dei bombardamenti a tappeto.
I fitti contatti dell’inviato di Trump, Steve Witkoff, con Netanyahu, Smotrich e altri esponenti dell’establishment israeliano, nonché l’annunciata visita del premier israeliano a Washington, sono anche per definire come muoversi in questa direzione?
A vedere la composizione del suo staff, ho l’impressione che Trump stia preparando una struttura per procedere in questa direzione. Ha richiamato la sua ambasciatrice in Giordania, Yael Lempert, che è ebrea, e ha nominato vice inviato speciale per la pace in Medio Oriente Morgan Ortagus, convertita all’ebraismo e votata alla causa della terra promessa. Se queste sono le premesse, è abbastanza chiaro come andrà a finire.
I Paesi arabi come reagirebbero a un piano per trasferire i palestinesi altrove? Almeno le opinioni pubbliche arabe si ribellerebbero?
Temo che per Egitto e Giordania alla fine sia difficile opporsi. D’altra parte, se un Paese è in default, gli arrivano i diktat dall’estero, che impongono di accettare delle condizioni in cambio di un aiuto per risolvere i problemi economici e finanziari. In Libano lo Stato ha fatto causa alla Banca centrale: è come se facesse causa a se stesso. Quanto all’opinione pubblica, è vero, potrebbe non accettare il piano.
Alla fine questa soluzione, quindi, metterebbe in difficoltà tutti i Paesi mediorientali?
Credo di sì: sarebbe una resa. Ma questa è una costante nella politica estera occidentale: risolvere un problema creandone un altro. Il Libano era stato regalato alla Siria per avere il sostegno di Damasco nella liberazione del Kuwait da Saddam Hussein. I Paesi vengono usati come merce di scambio.
(Paolo Rossetti)
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