Importanti novità per i cosiddetti conviventi di fatto che – su spinta dell’ultima pronuncia, la 148esima del 2024, emessa dalla Corte costituzionale – da ora potranno godere in ambito lavorativo delle stesse tutele riservate ai coniugi: una sentenza che si applica soprattutto alle imprese familiari e che ha portato allo stralcio dell’articolo 230 bis del codice civile e (di conseguenza) anche all’articolo ter inserito nel 2016 con la legge Cirinnà.
Il punto di partenza (tanto per la Consulta, quanto per noi tra queste righe) è la definizione stessa di conviventi di fatto, da ricercare nel 36esimo comma dello stesso articolo 230 del Codice civile in cui si definiscono – spiega Corte in un comunicato – come “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale”.
Nell’articolo bis contestato i conviventi non sono inseriti – da un lato – nell’elenco dei ‘familiari’ e – dall’altro – in quello che include i parenti che possono collaborare nelle imprese familiari, così come la legge Cirinnà riduceva ulteriormente le tutele per questa particolare figura: articoli che secondo la Corte di cassazione erano ipoteticamente incostituzionali secondo gli articoli 2, 3, 4, 35 e 35 della nostra Costituzione.
Il parere della Consulta sui conviventi di fatto: “La società è mutata e gli vanno riconosciute le stesse dignità dei coniugi”
“La Corte costituzionale ha accolto le questioni [sollevate] – si legge nel comunicato a cui accennavamo poche righe fa – rilevando che in una società profondamente mutata” sia la “normativa nazionale” che quella “costituzionale, comune ed europea” devono mutare di conseguenza, riconoscendo “piena dignità alla famiglia” che include anche (o solo) conviventi di fatto; precisando – tuttavia – che “rimangono le differenze di disciplina rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio“.
Nonostante questo (continua la Consulta) “quando si tratta di diritti fondamentali“, quali sono – appunto – quello “al lavoro e alla giusta retribuzione”, allora “devono essere riconosciuti a tutti senza distinzioni” per evitare “di essere inesorabilmente attratti nell’orbita del lavoro gratuito”. Dunque – in conclusione – la Corte ritiene “irragionevole la mancata inclusione dei conviventi di fatto nell’impresa familiare” visto che “la tutela del lavoro è strumento di realizzazione delle dignità di ogni persona; mentre per quanto riguarda l’articolo ter, i massimi giudici sottolineano che “comporta un ingiustificato e discriminatorio abbassamento di protezione” dato che attribuisce “agli stessi una tutela ridotta”.