“Il mondo rischia un suicidio collettivo”. È l’allarme che Antonio Guterres, segretario generale dell’Onu, ha lanciato a Cop 27, il vertice sul clima che si è aperto (chiuderà il prossimo 18 novembre) a Sharm-El-Sheik, in Egitto. “L’umanità ha una scelta da compiere – ha aggiunto -: o cooperare sul clima o morire”. In Egitto è intervenuta anche Giorgia Meloni, che ha chiesto una “giusta transizione energetica”, ribadendo comunque l’impegno dell’Italia sul fronte dei finanziamenti alla lotta al cambiamento climatico: “Abbiamo triplicato il nostro contributo con un impegno di 1,4 miliardi di euro in cinque anni”. Ma a gettare un’ombra sul vertice è arrivato The Economist, che sulla copertina del suo ultimo numero ha titolato: “Dire addio alla riduzione di 1,5°” della temperatura globale.



Le politiche climatiche fin qui seguite sono state fallimentari? Abbiamo sbagliato calcoli, previsioni, strumenti? “Nient’affatto – risponde Antonio Ballarin Denti, presidente del Comitato scientifico di Fondazione Lombardia per l’Ambiente –. Parlerei piuttosto di politiche climatiche mai partite o al massimo avviate ai minimi”.



Nonostante tutti i proclami e gli impegni solenni strombazzati in questi anni ai quattro venti?

In realtà, ce la siamo presa comoda.

Chi in particolare?

I paesi ricchi, perché non hanno fatto gli investimenti pubblici e nemmeno in qualche modo incentivato quelli privati, che sono il grosso delle risorse finanziarie in giro per il mondo. E poi non abbiamo dato gli aiuti promessi ai paesi emergenti o poveri, che sono quelli che più stanno soffrendo per i cambiamenti climatici. Basti pensare, come cita lo stesso Economist, alle spaventose alluvioni che hanno colpito il Pakistan, provocando quasi un milione di morti, e che hanno ancor più ridotto in povertà estrema intere zone di quel paese, perché le devastazioni hanno compromesso la produzione e l’export agroalimentari. I danni climatici sono sempre più vistosi.



Non le suona allora un po’ strano che a lanciare l’allarme sia l’Economist, il giornale che rappresenta la Bibbia del capitalismo delle élite?

Le dirò di più. A chiusura dell’articolo il settimanale inglese dice addirittura che l’Occidente dovrebbe vergognarsi.

Perché?

Tutti i paesi ricchi, che per un secolo e mezzo hanno intossicato l’atmosfera con i gas serra bruciando a più non posso combustibili fossili, adesso che i danni vengono sofferti dai più poveri non li aiutano. Invece dovremmo investire a loro favore. E bisogna fare in modo che questi investimenti siano messi a terra, coprendo in parte con risorse statali il rischio imprenditoriale di questi investimenti, stimolando nei paesi emergenti anche gli interventi locali e privati.

Oltre agli investimenti, quali altre asticelle bisognerebbe alzare?

Andrebbero implementate le politiche pubbliche di transizione energetica. Nel 2015, alla Cop di Parigi, erano state fatte promesse mirabolanti, dopo 7 anni non è successo granché.

Anche in Europa?

Prendiamo proprio l’Europa che, assieme agli Stati Uniti, è l’area più benestante del mondo e dove si possono mobilitare più risorse. Abbiamo fatto poco o nulla: se avessimo semplicemente messo mano agli investimenti fattibili, con i capitali pubblici e privati disponibili, oggi non saremmo qui a lamentarci e a preoccuparci che non abbiamo il gas russo. Sette anni di investimenti nelle energie rinnovabili ci avrebbero liberato almeno di quella quota di gas che dipende da Mosca e che è ad alto rischio di natura geopolitica. E attenzione: oggi è la Russia, ma chi ci dice che in futuro non avremo problemi di egual natura con altre aree, per esempio il Medio Oriente o il Venezuela, che ci forniscono petrolio o gas?

Resta il fatto che il nostro modello economico si regge ancora sui combustibili fossili…

Sì, ma come dico sempre dobbiamo venirne fuori il prima possibile. Per cinque evidenti motivi, a partire ovviamente dal clima e dall’inquinamento. Bruciando, i combustili fossili generano quelle polveri sottili che si disperdono nell’aria e che ogni anno provocano 60mila morti premature in Europa.

E le altre quattro ragioni?

Sono meno evidenti, ma altrettanto impellenti. Innanzitutto, i combustibili fossili sono destinati a finire, prima o poi; in secondo luogo, hanno un’importanza enorme non solo per l’energia, ma per realizzare prodotti chimici, plastiche, farmaci, manufatti industriali, ricavati dal metano con sintesi chimiche. I combustibili fossili, che il mondo ha accumulato in decine di milioni di anni, sono un tesoro preziosissimo e da conservare con cura. In terzo luogo, la guerra in Ucraina ha evidenziato la vulnerabilità geopolitica delle fonti energetiche, che vengono da aree del mondo a rischio. Infine, last but not least, i combustibili fossili e le materie prime sono molto suscettibili a una speculazione finanziaria del tutto ingovernabile. Tenga conto che il prezzo del gas è cresciuto del 600% mentre nello stesso tempo la domanda di gas è aumentata “solo” del 20%.

Recessione globale, caro energia, crisi alimentare, fame di energie fossili: quali conseguenze dirette del conflitto in Ucraina rischiano di far saltare ogni policy sui cambiamenti climatici?

Premesso che la strada è lunga e impervia e che se rimaniamo fermi non ne verremo fuori mai, resto moderatamente ottimista.

Dove nasce il suo moderato ottimismo?

Non mancano gli esempi virtuosi di chi, investendo per tempo sulle rinnovabili o sulle pompe di calore, ha ridotto sensibilmente i consumi di energia, spendendo di conseguenza molto meno in bollette. Questo è un momento di crisi, dobbiamo trovare nuovo gas al posto di quello russo, facendo i rigassificatori e anche trivellando un po’ in Italia: ma queste non sono altro che pezze a una situazione di grave emergenza. Non bastano acqua ossigenata e garza per guarire dalla ferita, serve l’antibiotico.

Le assenze al Cop 27 di Russia e Cina sono pesanti?

Sì, sono assenze pesantissime, perché assieme all’India questi paesi rappresentano quasi la metà della popolazione mondiale e il 40% abbondante delle emissioni totali. Il climate change è un problema globale, bisogna mettere attorno al tavolo tutti gli attori e far sì che tutti dimostrino attenzione e impegno non solo a parole, ma con i fatti.

Che cosa dobbiamo ragionevolmente aspettarci dalla Cop27 di Sharm-El-Sheik?

La lotta ai cambiamenti climatici poggia su due pilastri: la mitigazione, che è il più importante e che punta a moderare, attraverso il taglio delle emissioni e la progressiva sostituzione dei combustibili fossili, la deriva climatica, cercando di arrestare l’aumento delle temperature.

L’altro pilastro?

Anche dovessimo mettere in campo le politiche ambientali migliori, la deriva climatica è destinata a durare decenni; conviene dunque puntare con maggior decisione sull’adattamento.

Di cosa si tratta?

Viene considerato il “figliastro” della mitigazione, ma l’adattamento richiede una quota estremamente più bassa di risorse, eppure può dare risultati altissimi in termini di benefici.

Per esempio?

Se sostituissimo i cereali, le colture agricole su cui si basa l’alimentazione mondiale, con varietà, selezionate e non derivate dall’ingegneria genetica, che sappiano resistere alle ondate di siccità, che saranno sempre più frequenti e torride, ne ricaveremmo un doppio vantaggio: non solo neutralizziamo l’impatto ambientale, ma guadagniamo in produttività dei terreni, migliorando così il patrimonio alimentare di tutti. Oppure: visto che avremo inverni sempre più miti, perché insistere con il Superbonus 110% sui cappotti agli edifici? Sarebbe meglio investire sul raffrescamento delle abitazioni, con pannelli fotovoltaici, perché i costi dell’aria condizionata in estate stanno diventando sempre più onerosi rispetto a quelli dei termosifoni per il riscaldamento invernale. A Milano, per esempio, la temperatura estiva nelle zone cementate è di 4 gradi superiore alle zone che si affacciano su parchi pubblici. O ancora: dal momento che di neve ne cadrà sempre meno, perché insistere con gli impianti di risalita? Sarebbe forse il caso di investire su un altro modello di turismo, più adatto a un clima di montagna tiepido, favorendo passeggiate a piedi, in bici, a cavallo. Sono tutte opportunità da cogliere. Costano poco e rendono molto.

L’Italia ribadirà l’impegno alla riduzione del 55% delle emissioni entro il 2030, assunto dell’Europa, e del raggiungimento delle emissioni zero entro il 2050. Ma il nostro paese si presenta al vertice come quello “con i compiti a casa non fatti”. È così?

In realtà, i compiti a casa non li ha fatti quasi nessuno, neppure la Germania, che pure viene considerata tra le prime della classe, visto che soffre forse più di noi per il taglio del gas russo. Non siamo la pecora nera dell’Europa.

Ma che cosa potremmo e dovremmo fare in più?

Dobbiamo riconsiderare i due princìpi cardine della sostenibilità: il principio di responsabilità, guardando alle generazioni future e ad altre zone del mondo, non solo a casa nostra, e il principio di sussidiarietà, partendo dal basso, stimolando e coinvolgendo – come fa opportunamente la Regione Lombardia – famiglie, condomini, quartieri, comunità energetiche, comunità locali, associazioni delle imprese, affinché in ciascun ambito si inizi a camminare su una strada alternativa.

(Marco Biscella)

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