Non è un accordo storico, ma la COP26 sarà da ricordare. La conferenza Onu che ha fatto convergere su Glasgow migliaia di delegati dei 197 Paesi impegnati nella partita del clima e che oggi chiude i battenti, alla fine non si è limitata al “blablabla” come da ingenerosa accusa da parte di Greta, anzi.
Partiamo dal colpo di scena del penultimo giorno di negoziazioni. Giovedì, Cina e Stati Uniti, i due principali inquinatori del pianeta che rilasciano rispettivamente 28% e 15% del totale delle emissioni di CO2, uniscono le forse e sottoscrivono una dichiarazione sul clima che porterà a un primo incontro la settimana prossima tra i Presidenti Joe Biden e Xi Jinping. Un impegno congiunto che rappresenta un punto importante per il meccanismo delle contribuzioni volontarie di riduzione, quei NDC (National Determined Contribution), che ogni nazione presenta in vista del prossimo incontro previsto nel 2022 a Sharm-el Sheikh per centrare i target ambientali. E che la COP26, pur esortando gli Stati a fare di più, ha saggiamente mitigato secondo il principio “delle responsabilità comuni, ma differenziate e delle rispettive capacità alla luce delle circostanze nazionali”.
Altra conquista del vertice come si legge nelle bozze dei documenti finali, è l’aver ribadito e mantenuto l’obiettivo di contenere l’aumento delle temperature globali ben sotto i 2 gradi rispetto ai livelli preindustriali riconoscendo che l’impatto sul pianeta di un aumento superiore ai 1,5 gradi avrebbe innescato degli eventi meteo estremi irreversibili. Come del resto indicato dal sesto aggiornamento del rapporto IPCC. Per conseguire questo obiettivo si fissa al 2030 la data per il taglio del 45% delle emissioni rispetto ai valori del 2010 (dieci punti percentuali in meno rispetto al pacchetto Ue Fitfor55) per puntare alla neutralità carbonica alla metà del secolo. Ossia il bilanciamento tra le emissioni nette di gas prodotte dall’uomo e quelle assorbite e/o rimosse. Mentre sulla base degli impegni volontari presentati dai singoli Paesi siamo allineati su un incremento del 13%. Una rotta che ci porta, secondo le stime del think tank Climate Action Tracker, verso un insostenibile aumento di 2,4 gradi entro la fine del secolo.
Va tuttavia riconosciuto che 140 Paesi che rappresentano il 90% delle emissioni globali, hanno aderito al target net zero per il 2050. Mentre la Cina ha prorogato il termine al 2060 e l’India al 2070.
Altro punto positivo è il riconoscimento della rilevanza delle politiche di adattamento per contrastare gli effetti dei disastri naturali come inondazioni, siccità, incendi, correlati al cambiamento climatico. Un esempio per tutti. Con l’uragano Ida che colpì New Orleans in ottobre si contarono nove vittime. Sedici anni prima, l’uragano Katrina, altrettanto violento, fece 1.800 vittime. Nel frattempo, si erano edificate dighe e paratie per proteggere la città della Louisiana tutelando sia civili che costruzioni. Iniziative meno facilmente implementabili nei Paesi poveri i quali appunto richiedono un contributo alla copertura di iniziative di adattamento da parte delle economie sviluppate. Le stesse che storicamente hanno maggiori responsabilità nello stock di emissioni di gas serra stratificate nei secoli.
La richiesta di fondi è stata raccolta dalla COP26. Non solo impegnando fondi pubblici, ma chiamando a mobilitarsi il settore privato, banche e istituzioni finanziarie internazionali, per mettere a disposizione le risorse necessarie e incoraggiando le parti a continuare a esplorare approcci e strumenti innovativi per creare un volano per la finanza di adattamento da fonti private. Altro importante conseguimento del vertice è l’impegno delle parti a uscire dal carbone entro il 2030 e 2040 per i Paesi in via di sviluppo. Finora, per quanto incredibile, non si era mai fatta esplicita menzione di abbandonare la fonte fossile più inquinante. Altra sorpresa è la promessa di fermare la deforestazione entro il 2030 e invertirne il trend, impegno sottoscritto anche da Paesi chiave per l’ecosistema delle foreste primarie come Brasile, Russia e Congo.
Considerare la COP26 un fallimento perché non ha alzato ulteriormente l’asticella degli obiettivi è fare prova di cattiva fede, oltreché ignorare che la transizione si scontra con i fatti e non con le opinioni. Sono stati compiuti dei progressi nella determinazione del NDC e soprattutto viene mantenuto il target di +1,5 gradi. Non era cosa scontata due settimane fa. Da questa angolazione il vertice di Glasgow può decisamente definirsi un successo.
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