I lavori della COP26 proseguono fino al 12 novembre con gli sherpa alla ricerca di un’intesa finale con impegni più stringenti, all’interno però degli accordi raggiunti dai capi di stato e di governo nel summit di martedì: entro il 2030 arriverà lo stop alla deforestazione, mentre l’impegno a ridurre del 30% le emissioni di metano nel medesimo anno non è stato sottoscritto da Russia, Cina e India. New Delhi, tra l’altro, non vuole azzerare le proprie emissioni prima del 2070, mentre Pechino ha ribadito che raggiungerà, come Mosca, la neutralità carbonica solo nel 2060, quando l’accordo tra gli altri Paesi prevede come data limite il 2050.
Per Francesco Forte, economista ed ex ministro delle Finanze, i distinguo di Cina e India, che sono tra i Paesi più inquinanti al mondo, sono tra i difetti della COP26, «insieme alla scarsa concretezza e alla grande astrazione di programmi molto posticipati nel tempo. Va detto comunque che la stessa astrazione c’è da parte di Greta Thunberg: a parte la protesta, infatti, non si capisce quale sia la sua proposta».
Intanto però c’è un impegno che ha trovato l’accordo di tutti contro la deforestazione…
Sì, ma non basta, occorre riforestare molte aree geografiche, in particolare in Sud America, ma anche in Africa e in Asia. Ci sono parti del mondo ove sarebbe importante si producesse un bene ambientale così importante per tutti. Parlando di concretezza intendo però qualcos’altro.
Cosa?
Si parla tanto di rinnovabili dimenticando però l’importanza dell’idroelettrico, che a mio avviso non viene sufficientemente sfruttato. Il fotovoltaico, tramite le nanotecnologie, può anche avere un rendimento maggiore, ma resta il problema che non produce energia di notte. Vengono ignorate anche le tecnologie che consentono di utilizzare il gas evitando dannose emissioni. E mi sembra non ci siano impegni su efficienza e risparmio energetico. Io credo che da un mix di tutte queste misure possa arrivare un risultato vincente: più energia, prodotta in modo ragionevole, con minor emissioni. È ovvio però che tutto questo ha dei costi economici non indifferenti.
Oltretutto se un’azione del genere venisse intrapresa solamente dall’Europa avrebbe scarsi risultati pratici. Senza un impegno da parte di Paesi come Cina e India non si va lontano.
Questo è il vero problema geopolitico emerso con chiarezza dalla COP26. Io credo che l’India vada aiutata, visto che non ha i mezzi finanziari per compiere l’importante transizione ecologica, mezzi che invece la Cina ha. Nel caso di Pechino a mancare è la volontà politica e occorre quindi fare pressione perché tenga fede ai suoi propositi. In questo senso l’arma migliore è cominciare a imporre dei dazi sui Paesi inquinatori come ha ipotizzato l’Ue. I cinesi si convincono coi dazi.
Sostanzialmente la soluzione al problema ambientale deve passare da una guerra commerciale?
Esatto.
Non sarà allora indolore, la Cina non starà a guardare.
In questo caso il vero problema è che ci sono molte imprese europee che hanno investito in Cina e guadagnano, ad esempio, vendendo automobili. E chi ha investito in Cina è amico dei cinesi. Non possiamo poi negare che in Italia ci sia un “partito cinese”, oltre che una presenza finanziaria cinese, dalla Pirelli alla Cdp Reti. C’è quindi una questione economico-politica non indifferente.
Alla luce di questa situazione, l’Europa cosa dovrebbe fare?
La Russia è da tempo rivale della Cina. Non capisco perché l’Europa sia ostile alla Russia quando dovrebbe cercare un’alleanza con lei, stringere degli accordi proprio in chiave anti-cinese.
Stringere accordi con Mosca non irriterebbe gli Stati Uniti?
In realtà, gli americani, specie i Repubblicani, non hanno particolari problemi con la Russia. A Washington, inoltre, in questo momento è molto più importante la questione del Pacifico. Fermare la Cina per gli Usa è quindi fondamentale. Il problema dell’Europa è semmai un altro.
Quale?
Oltre ai legami di alcuni Paesi, in particolare la Germania, con la Cina, in Europa il problema è la crisi di leadership politica. Non c’è più la Merkel, a Berlino si prospetta una coalizione semaforo, cioè un’accozzaglia, Macron è a fine mandato, non sembra esserci nemmeno più una predominanza del Ppe e la socialdemocrazia europea non vive un momento brillante. Di fatto, quindi, sotto la tecnocrazia di Bruxelles non c’è una solida base politica.
Si parla sempre di Draghi come nuovo leader europeo.
È vero che Draghi potrebbe emergere come leader europeo, ma non è un politico, bensì un tecnico che governa grazie a una maggioranza molto eterogenea e con divisioni all’interno degli stessi partiti che la compongono. Se, quindi, l’Europa politicamente non c’è, come fa a fronteggiare la Cina e ad affrontare il problema politico della riduzione delle emissioni all’interno dei suoi confini?
(Lorenzo Torrisi)
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