Disappunto e accordo inaspettato: in tre parole il risultato della COP27. Dopo due settimane di discussioni e 48 ore di tempi supplementari, all’alba di ieri le parti sono riuscite ad approvare una risoluzione definita storica per alcuni, fallimentare per altri.
Il testo contestato introduce un nuovo paradigma nella “finanziarizzazione” della madre di ogni crisi: riconosce dei risarcimenti ai Paesi poveri colpiti dal fenomeno climatico. In extremis, viene adottato il principio del loss and damage per creare un fondo per le nazioni colpite da siccità, incendi, inondazioni e altri eventi climatici estremi dovuti alle emissioni prodotte principalmente dalle economie avanzate. Non è un’istanza nuova considerato che sin dalla prima conferenza climatica, nel 1992, il blocco di 130 Paesi indicati come G77 avanzava la legittima richiesta di un indennizzo per i danni e le perdite subite, scontrandosi con l’opposizione dei Paesi ricchi che legavano l’erogazione di risorse a cogenti impegni di riduzione dei gas serra delle controparti con azioni di mitigazione (investimento in tecnologie green) e misure di adattamento (rafforzamento delle difese preventive dai disastri climatici in arrivo).
Venerdì sera alla scadenza ufficiale della conferenza, dopo che il confronto si era incagliato al punto da spingere il vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans a minacciare “meglio nessun accordo che un cattivo accordo”, sul tavolo dei negoziati è spuntata la contro-proposta europea di un pacchetto loss and damage per i “Paesi vulnerabili” genericamente legato all’impegno di una “rapida” riduzione delle emissioni. La mancanza di nuove ambizioni nel fissare un tetto ai gas serra rispetto all’ultima COP di Glasgow del 2021 scontenta il mondo ambientalista che denuncia l’assenza di progressi nella lotta contro la crisi climatica. Nessun riferimento alla rinuncia di “tutti i combustibili fossili”, bensì un invito a compiere passi verso “l’abbandono graduale dell’energia a carbone e l’eliminazione graduale degli inefficienti sussidi ai combustibili fossili”, come già concordato al vertice COP26 di Glasgow.
Gli attuali impegni dei firmatari non soddisfano gli obiettivi di Parigi, e nemmeno rispettano il contenimento dell’aumento della temperatura globali entro i 2°C rispetto alla media all’era preindustriale, quando è iniziato l’uso intensivo dei combustibili fossili responsabili del riscaldamento globale. Nella migliore delle ipotesi, viaggiamo sulla traiettoria di un aumento di 2,4°C entro la fine del secolo. Al ritmo attuale delle emissioni, il termostato del pianeta schizzerà di +2,8°C. Allo stato attuale, con un riscaldamento di quasi 1,2°C, oggi, gli impatti del cambiamento climatico si sono già intensificati.
La risoluzione di Sharm el-Sheikh rimane volutamente vaga e delega a un’apposita commissione i dettagli operativi di funzionamento del fondo da presentare alla prossima COP negli Emirati Arabi Uniti a fine 2023. A quanto ammonta? Dove reperire le risorse? Chi saranno i Paesi beneficiari? Chi saranno i Paesi donatori? Punto dirimente è la Cina. Riconosciuta, trent’anni fa ai tempi della prima conferenza sul clima, la sua condizione di Paese in via di sviluppo, oggi è una superpotenza economica oltreché il primo emettitore mondiale (31% del totale delle emissioni di carbonio). Sull’adozione del fondo di risarcimento si profilano altri nuovi scontri. E non poche incognite. Ricordiamo che dodici anni fa alla COP di Copenaghen, le nazioni ricche promisero 100 miliardi di dollari all’anno fino al 2020 ai Paesi poveri da destinare a interventi di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici. A conti fatti, l’impegno risulta esser stato disatteso.
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