La COP28 “chiama” il nucleare. Parrebbe di sì. Per la prima volta (ma ci sono volute ben 27 edizioni…) l’atomo compare sulla scena della Conferenza mondiale delle parti interessate ad affrontare e a risolvere il problema della salute dell’ambiente, in particolare il tema del cambiamento climatico.
Lo fa ospitando la firma di un accordo-appello finalizzato addirittura a triplicare entro il 2050 la potenza nucleare oggi installata nel mondo, pari a 370 GWe da 412 reattori distribuiti in oltre 30 nazioni che producono annualmente circa 2500 TWh di elettricità, funzionando continuamente e alla massima potenza per oltre l’80% delle ore all’anno. Solo le centrali a carbone si avvicinano a queste performance. La grida è sottoscritta da 20 Paesi, USA e Francia in testa, poi Regno Unito, Canada, Corea del Sud e Giappone, molti europei – dalla Finlandia ai Paesi Bassi, passando per Svezia, Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Bulgaria, Romania, Slovacchia e Slovenia – accompagnati dall’Ucraina e da nazioni che non ti aspetti: Mongolia, Moldova, Marocco, Ghana.
A chiudere il gruppo, gli ospitanti: quegli Emirati Arabi Uniti che non solo hanno fatto intendere, scandalizzando, che sarebbe irrealistico eliminare d’emblée i fossili (basterebbe fare due conti ed ascoltare qualche miliardo di persone che, come già abbiamo fatto noi, hanno interesse vitale ad uscire dalla povertà e sviluppare la loro economia e il loro tenore di vita, per capire che non è una considerazione da pazzi), ma hanno pure avuto la ventura di costruire in meno di un decennio, partendo da zero, quattro grandi reattori nucleari (coreani) da 1400 MWe l’uno.
Da notare: per motivi geopolitici, mancano alla firma due pezzi da novanta, alias Cina e Russia, che da sole rappresentano il nuovo baricentro nucleare mondiale, con ben 35 dei 58 reattori oggi in costruzione nel mondo. Ma che l’idea di triplicare la loro potenza nucleare al 2050 l’avevano avuta in anticipo e a prescindere dal global warming: semplicemente per questioni di mercato e di strategia energetica domestica.
Alla COP28 ci siamo pure noi. La premier Giorgia Meloni, sabato 2 dicembre, ha esplicitamente dichiarato che ci serve “una transizione ecologica, non ideologica”. Quindi, eventualmente, nucleare incluso. È senza dubbio un’ottima dichiarazione, pienamente condivisibile, ma per l’Italia non deve rimanere solo uno slogan. Se un contributo nucleare deve essere, si facciano i passi necessari, prendendosi le relative responsabilità. Anche a rischio di perdere qualche punto percentuale nei sondaggi, nel caso. In realtà, potrebbe essere addirittura il contrario: dall’ultimo sondaggio SWG pubblicato a ottobre per iWeek, tra i più giovani (dai 18 ai 35 anni) vi sono i maggiori consensi e in generale i favorevoli diventano decisa maggioranza se si soddisfano due richieste sull’atomo, un effetto benefico percepibile in bolletta e la centrale non vicino a casa propria. Due richieste non impossibili da assecondare.
Come ricordava di recente l’on. Maurizio Lupi in un convegno, non avesse mantenuto la decisione di proseguire con la realizzazione del Mose, nonostante gli strali pervenuti al tempo da più parti e a più riprese, oggi Venezia se la passerebbe decisamente male.
Allo slogan serve dare consistenza in tempi brevi. E non si può pensare, oggi, solo e unicamente all’energia da fusione: perché i tempi saranno, purtroppo e nonostante gli enormi sforzi, ancora lunghi prima di vedere un kWh elettrico competitivo sul mercato provenire da un reattore a fusione, ma soprattutto perché il treno nucleare sta partendo. Adesso, in Europa e nel mondo. E noi abbiamo bisogno del contributo nucleare alla decarbonizzazione e alla sicurezza energetica il prima possibile.
Di Cina e Russia si è già detto, aggiungiamo il nuovo programma nucleare canadese e quello indiano, il rinnovato interesse dei coreani, le nuove costruzioni di reattori nel Regno Unito e in Egitto, Turchia, Bangladesh (sì, avete letto bene), i piani per entrare nel club atomico di Arabia Saudita, Giordania, i Paesi africani firmatari dell’appello più altri nel continente, Indonesia, Filippine e Malesia nel Far-East, e il quadro è abbastanza completo.
E in Europa? Anche il Vecchio Continente si muove. La Francia ha il programma più impegnativo e ambizioso: estendere la vita a molti dei suoi 56 reattori, costruire almeno 6 nuovi reattori di III Generazione EPR2, lanciare lo Small Modular Reactor europeo Nuward. Uno sforzo titanico per il quale avrebbe bisogno di un aiuto. Magari dalla seconda potenza manifatturiera europea, volendo. I francesi hanno spinto per la nascita della European Nuclear Alliance: 14 Paesi membri (più due semplici osservatori, tra i quali l’Italia) che hanno l’obiettivo di “federare” coloro che intendono sfruttare l’energia atomica, collaborando per il suo sviluppo. Ad inizio 2024, poi, nascerà la EU SMR Industrial Alliance, con il compito di sviluppare tecnologie e mercato per i piccoli reattori modulari. Ai diversi Paesi EU che hanno firmato l’appello, già in pista per sviluppare nuovi programmi nucleari nazionali, va poi aggiunto il Belgio, che ha completamente ribaltato la sua precedente politica di phase-out, investendo i primi 100 milioni di euro sulla tecnologia SMR e dichiarando l’organizzazione del primo summit mondiale sull’energia nucleare, che sarà ospitato a Bruxelles il 21 e 22 marzo dell’anno prossimo.
Nel complesso, un business europeo da svariate decine di miliardi di euro all’anno, da ora al prossimo decennio.
Noi oggi siamo sostanzialmente fuori da tutto questo, politicamente parlando.
Ma non lo è l’industria nucleare italiana. Sì, perché alcune utilities e alcuni energivori iniziano a mostrarsi seriamente interessati all’ipotesi atomica, si vedano il recente studio di Edison e le mosse di Federacciai verso il nucleare sloveno. E poi, molte aziende lavorano da parecchio tempo nel settore, anche fuori dall’Europa, dimostrando capacità progettuale e manifatturiera sul nucleare, sia l’attuale sia quello di nuova generazione. A riguardo, il Politecnico di Milano presenterà a breve il risultato di una prima indagine sulla supply chain nucleare italiana, per quanto riguarda la fabbricazione dei componenti più grandi e impegnativi degli Small Modular Reactor, rivelando una capacità realizzativa nazionale pressoché unica in Europa.
Sarebbe forse opportuno che si iniziassero a tradurre in azioni e decisioni operative le dichiarazioni di principio o d’intento. Guardando al presente e alle prospettive prossime, senza rimandare ad un futuro troppo in là nel tempo. In primis, supportando l’industria e l’interesse nazionale, puntando a un ruolo strategico e all’opportunità di business in Europa.
Di questo si parlerà con politici, industriali e stakeholder oggi a Roma, alla giornata annuale dell’Associazione Italiana Nucleare.
E per chi non sarà all’evento, un resoconto essenziale sempre qui, sul Sussidiario. Stay tuned.
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