Ieri mattina, mentre l’Italia si risvegliava, a Dubai è stato raggiunto l’accordo sulla dichiarazione finale della COP28. La prima azione è triplicare la capacità di energia rinnovabile, accompagnata dal raddoppio dell’efficienza energetica media da qui al 2030 e dall’accelerazione degli sforzi per eliminare gradualmente il carbone sostenendo l’uso di carburanti a zero o basse emissioni. Peccato che il testo non riconosca né la strategicità del nucleare, né il suo collegamento diretto con il target di zero emissioni nette al 2050. Infine, dopo molti tentennamenti e polemiche, il Presidente della Conferenza, il Sultano al-Jaber, ministro dell’Industria degli Emirati e amministratore delegato della compagnia petrolifera Adnoc, ha annunciato il risultato tanto atteso quanto dibattuto: la storica decisione di menzionare nel documento la strategia di “dismissione” dai combustili fossili.



Il diavolo sta nei dettagli così come nei compromessi delle formulazioni dei trattati internazionali sul clima. Se negli incontri preparatori alla conferenza circolava l’ambiziosa ipotesi di un’uscita dai fossili (phase-out), mitigata nel corso dei negoziati dall’opzione di riduzione (phase-down), il testo finale invita le parti a transitare fuori dai combustibili fossili nei sistemi energetici (transitioning away).



Se il “UAE consensus” come lo ha definito il Presidente Al Jaber, significhi davvero un’eliminazione de facto dei combustibili fossili, o sia unicamente un ulteriore passo verso l’inferno del surriscaldamento, è questione che rimarrà ancor a lungo irrisolta. Certamente la COP28 si ricorderà per l’approccio realistico a una transizione energetica giusta, ordinata ed equa. Così come la conferenza di Dubai segna il superamento del dirigismo climatico imposto dall’Occidente evoluto, il quale ha guadagnato il proprio benessere proprio grazie ai combustibili fossili. Finalmente si archivia questa “reliquia di neocolonialismo”, come la definisce lo scienziato statunitense Roger Pielke Jr., e per lo spirito che finora aleggiava nelle conferenze climatiche si tratta di un’encomiabile prima assoluta.



Altro merito della COP28 è il riconoscimento che ogni Paese presenta un mix energetico specifico costruito e consolidato nel tempo e pertanto occorre dare a ogni Stato la libertà di definire il proprio percorso con la responsabilità di raggiungere gli obiettivi. Questo senza chiudere gli occhi davanti a una scomoda realtà, per dirla con il titolo del famoso film di Al Gore. Ancora oggi a 8 anni dagli Accordi di Parigi in cui si sono fissati gli obiettivi di limitare sotto di 2 gradi Celsius l’aumento delle temperature globali medie rispetto al periodo preindustriale, l’80% dell’energia primaria è coperto da combustibili fossili e l’elettricità nel mondo è per oltre il 36% generata da carbone, la più inquinante delle fonti fossili. Un risultato ragguardevole in termini di contenimento del carbonio si otterrebbe già solo con il passaggio dal carbone al gas, e con l’evoluzione tecnologica da centrali a vapore che presentano il 30% del rendimento a quelle a ciclo combinato al 50%. Accompagnato da un drastico intervento sulle emissioni di metano, gas serra 84 volte più potente rispetto alla CO2.

A sole 24 ore dalla conclusione della sessione plenaria della COP28, l’accordo ufficiale può essere ragionevolmente interpretato come un passo significativo in direzione della fuoriuscita dall’era dei fossili nei sistemi energetici. Tuttavia, lascia aperte una “litania di scappatoie” a beneficio soprattutto degli Stati più poveri per consentire loro di sfruttare le proprie risorse minerarie.

Come ha dichiarato la ministra per l’Energia dell’Uganda, Ruth Nankabirwa Seentamu, “chiederci di rinunciare ai fossili è un insulto. Equivale incatenarci nella povertà. Possiamo accettare un’uscita con tempi più lunghi se nel frattempo i primi a uscirne saranno le economie sviluppate mentre noi saremo gli ultimi”. Un’uscita a due velocità, insomma.

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