È probabile che non sarà neppure questa la COP che salverà il clima. Del resto, a partire dal primo rapporto dell’Onu sul clima nel lontano 1990, quando la comunità scientifica ha lanciato l’allarme della correlazione tra emissioni di CO2 e l’aumento di temperature medie globali, il pianeta imperterrito ha continuato a pompare volumi crescenti di emissioni di carbonio nell’atmosfera. Tanto che l’Ipcc, l’organismo Onu che studia il cambiamento climatico, valuta nel 9% l’aumento complessivo delle emissioni di carbonio tra il 2010 e il 2030; mentre, secondo gli impegni dell’Accordo di Parigi, nello stesso periodo, queste a livello globale, dovrebbero diminuire del 45%. Alla vigilia della COP28 sarebbe miope non riconoscere che siamo fuori rotta, ma sarebbe altrettanto imprevidente non ravvisare i progressi compiuti. Anche se molto rimane da fare e sicuramente meglio di come si è agito nei precedenti 27 summit.
Otto anni fa all’epoca della COP di Parigi, secondo lo scenario “business as usual” le temperature medie globali avrebbero decisamente superato i 3 gradi nel 2100 rispetto ai valori preindustriali. Attualmente si stima un aumento tra 2,5-2,9 gradi, valori comunque superiori alla soglia per evitare gli effetti peggiori del cambiamento climatico. Un altro elemento di cauto ottimismo è l’espansione della capacità di energia solare. All’epoca di Parigi erano installati 230 GW passati a 1.050 GW l’anno scorso. Un anno prima della COP di Parigi, nel 2014, il mercato mondiale del prezzo del carbonio interessava appena il 12% del volume totale di CO2 emessa dalle industrie valutato a un costo irrisorio di 7 dollari per tonnellata. Oggi la percentuale di attività interessate è quasi raddoppiata e il prezzo salito a circa 32 dollari per tonnellata. L’azzerare le emissioni nette era, all’epoca di Parigi, l’impegno di una sola nazione mentre oggi sono 101.
La direzione di marcia è segnata. Perciò l’Agenzia internazionale per l’energia preconizza il raggiungimento del picco delle emissioni nel 2040. Tuttavia, questa traiettoria non è sufficiente per contenere le temperature sotto 2 gradi, limite di sicurezza per limitare gli eventi meteorologici estremi. Dopo l’estate più torrida, gli incendi più estesi, le inondazioni più disastrose, sembra scontato che i delegati a Dubai trovino un punto di caduta tra l’urgenza, le aspettative e le istanze diverse dei 200 Stati partecipanti.
La realtà è purtroppo altra. Tra le migliaia di mozioni, due i principali punti dirimenti dei negoziati che faranno ricordare la COP28 come un successo o un fallimento. Primo, l’impegno nell’eliminazione delle energie fossili e non semplicemente la loro progressiva riduzione. In Egitto, l’anno scorso, il negoziato si incagliò sulla stessa sollecitazione riferita però al solo carbone. Punto mancato. L’altro punto riguarda il supporto finanziario ai Paesi poveri che contribuiscono marginalmente al bilancio delle emissioni globali (14% della popolazione mondiale per l’1% della CO2), ma ne pagano lo scotto più alto in termini di esposizione agli eventi atmosferici estremi che pesano sui già vulnerabili conti pubblici. Riuscirà la COP28 a varare l’attuazione del fondo da 100 miliardi di dollari promesso l’anno scorso? Tanto più che, con un’ingiustificabile spinta accusatoria di ecocolonialismo, c’è un fronte in Occidente che preme affinché non vengano sfruttate nuove risorse minerarie nelle economie povere allontanando così futura ricchezza che i Governi di questi Paesi potrebbe destinare ad aumentare il livello di vita dei propri cittadini. E anche a difendersi meglio, con la costruzione di infrastrutture e sistemi di allerta e mitigazione, dalle catastrofi naturali.
Infine, è incongruenza o astuzia scegliere che a presiedere la COP28 sia il Sultano al-Jaber anche capo della società petrolifera nazionale degli Emirati Arabi? Per John Kerry, l’abile negoziatore che nel 2015 riportò al Presidente Obama il trofeo degli Accordi di Parigi, senza il coinvolgimento dell’industria petrolifera è impensabile sperare in un qualsiasi avanzamento delle politiche climatiche. Scettici invece le organizzazioni ambientaliste e 130 decisori politici europei e statunitensi che hanno sottoscritto un appello contro la presidenza di al-Jaber nonostante questi si sia schierato a favore dell’impegno di triplicare la capacità delle energie rinnovabili entro 2030. Ma del resto comportamenti bipolari sono all’ordine del giorno nelle politiche green. La Cina è campione mondiale nelle rinnovabili (dai pannelli fotovoltaici alle batterie passando per le terre rare), ma anche al primo posto come emettitore mondiale di gas serra.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.