È partita la COP29 sull’ambiente. Stavolta a Baku, in Azerbaijan, dove si discuterà del cambiamento climatico e di come attenuarne gli effetti riducendo le emissioni. Un incontro sul quale pende il rischio di un’uscita degli USA per decisione del presidente eletto Donald Trump dagli accordi di Parigi (2015). Nella sostanza, spiega Antonio Ballarin Denti, presidente del comitato scientifico della Fondazione Lombardia per l’Ambiente, una defezione che potrà incidere fino a un certo punto, perché dovrebbe fare i conti con una comunità scientifica americana che ha un peso specifico notevole e che potrebbe non lasciare molto spazio a posizioni alternative della nuova amministrazione. Resta invece il tema della necessità di un piano Marshall per il clima, per aiutare gli Stati che hanno meno risorse ad abbandonare i carburanti fossili, così come deciso nella scorsa edizione della Conference of the Parties. E la necessità di politiche di adattamento, rivedendo la gestione dei territori e potenziando la protezione civile.
Trump sembra voglia uscire dall’accordo di Parigi sul clima. Che conseguenze potrebbe avere una decisione del genere?
Con Trump bisogna sempre attendere come si comporterà nei fatti. In tanti settori la sua amministrazione precedente è stata più tradizionale di quanto annunciato. Il fatto è che negli USA c’è una comunità scientifica che ha il suo peso sulla Casa Bianca, qualunque sia il suo inquilino, un corpo diplomatico che si è impegnato per anni sui temi dell’ambiente. Non credo sia molto facile rovesciare completamente le politiche precedenti. Credo che verranno fatte delle puntualizzazioni.
Cosa potrebbe succedere?
Trump non arriverà a dire che il cambiamento climatico non esiste, perché ormai lo credono tutti, e neanche che l’uomo non ne è responsabile. È probabile, invece, che dica, come succede anche in Europa: “È necessario per forza fare alcune azioni, tipo l’elettrificazione del settore automobilistico e la completa messa al bando dei combustibili fossili? O piuttosto il taglio delle emissioni può essere fatto con nuove tecnologie?”. Per ridurre le emissioni si potrebbe utilizzare il nucleare e stanno progredendo anche le tecnologie per la cattura del CO2 nell’atmosfera.
Ci sono anche altre opportunità che si possono sfruttare?
Nel settore automotive si può puntare su motori con altissima efficienza e che emettono molto poco. Il bando dei veicoli diesel si può fare anche più lentamente di quanto previsto in Europa, assicurandosi che le emissioni siano, comunque, sempre più basse.
Quindi, cosa ci si può aspettare davvero?
Non un’inversione di rotta, un ritiro dalla convenzione dell’ONU sul cambiamento climatico. Gli accordi di Parigi potrebbero essere riletti in una chiave più pluralista all’insegna della cosiddetta indifferenza tecnologica, lasciando aperte più strade possibili, a partire dal nucleare, senza puntare su una sola soluzione. Trump impulsivamente potrebbe essere tentato di prendere posizioni più drastiche, ma i consiglieri che avrà intorno, gli scienziati, i diplomatici, gli stessi tecnologi (il suo amico Musk, per esempio, ha investito sull’auto elettrica) lo indirizzeranno diversamente. Insomma, sono preoccupato, ma non mi fascio la testa.
La comunità scientifica ha veramente così tanto peso?
Anche durante il Covid Trump era scettico sui vaccini, diceva di volersi curare in altro modo, alla fine, però, Fauci e la comunità scientifica sono riusciti a imporre agli Stati Uniti l’uso dei vaccini e una campagna preventiva. Nei Paesi veramente forti e importanti dal punto di vista economico, politico e tecnologico la comunità scientifica è così forte, radicata e fertile nel trasportare i risultati al business, all’industria, che è impossibile opporvisi. Basta pensare a quello che succede nel settore farmaceutico o chimico. Aveva ragione Platone: le nostre democrazie stanno virando lentamente verso il governo dei filosofi moderni, che sono gli scienziati. Abbiamo visto che in campo sanitario, ambientale e in altri campi l’ultima parola non spetta quasi più ai parlamenti o ai governi, ma alla comunità scientifica.
Non basta, tuttavia, guardare solo a quello che faranno gli USA. Quali sono gli altri Paesi che potrebbero incidere sulle decisioni e sull’effettiva diminuzione delle emissioni?
USA e UE si sono impegnati molto, ma India, Cina e i BRICS in generale cosa fanno? Nel passato i gas li emetteva soprattutto il mondo occidentale, ma tra un po’, se non già adesso, saranno questi Paesi a produrre più emissioni inquinanti. Non vale più il discorso che l’Occidente deve rimediare alle sue colpe. O si impegnano tutti, o non se ne viene fuori.
Ma le decisioni prese in questi incontri contano veramente? L’anno scorso la convention si era conclusa parlando di un allontanamento progressivo dagli idrocarburi, ma negli ultimi tempi diversi Paesi produttori hanno annunciato un aumento di oltre il 30% delle attività estrattive di gas e petrolio. Come si spiegano queste contraddizioni?
Gli accordi sono raggiunti in buona fede, poi però il PIL detta le sue leggi: chi non può permettersi energia ad alto costo ricorre ancora agli idrocarburi. Che il clima stia accelerando il suo cambiamento è sotto gli occhi di tutti, e anche che bisogna ridurre le emissioni. Il problema è che gli interventi in questi campi costano, in termini economici e di sacrifici per la gente.
Arriveremo mai alle emissioni zero?
Sono pessimista sui tempi, non arriveremo nel 2050, ma ad andare bene a fine secolo. Ma si arriverà per forza. Ci vorranno tempi più lunghi, nel frattempo bisognerà porre l’accento sull’adattamento ai cambiamenti del clima. Valencia insegna: dobbiamo prevenire i danni e gestire gli impatti. Basta pensare all’Emilia-Romagna o agli uragani in molte parti del mondo. Se non si fa niente, tuttavia, il processo può diventare irreversibile e dopo il sistema non lo si governa più. L’umanità non scomparirà, ma qualche generazione vedrà i sorci verdi.
Ma qual è la priorità che deve affrontare la COP29? Qual è il nodo da sciogliere?
Il problema è come aiutare i Paesi meno sviluppati. Ci sono da tirare fuori parecchi soldi. Da Parigi si era detto che si allocavano centinaia di miliardi, dei quali credo si sia spesa una minima parte. D’altra parte, grossi investimenti come il piano Marshall o il PNRR hanno il loro rendiconto, una strategia finanziaria impegnativa e di ampio respiro, oltre che redditizia nel futuro. È realizzabile. USA e UE emettono molto, ma anche la Cina, l’Africa, il Sud America. Occorre un piano Marshall del clima. E non è solo un onere.
Ma quanto è urgente un intervento?
Sono tra quelli per i quali sarebbe opportuno darci sotto, anche perché gli idrocarburi non emettono solo CO2, ma generano anche tensioni geopolitiche. Dietro le guerre in Ucraina e in Medio Oriente c’è anche questo. Sono un terreno pericoloso economicamente per gli sbalzi che provocano ai mercati finanziari. Meglio cercare fonti alternative. La transizione è avviata: se dura 50 anni ce la facciamo, se dura 200 il cambiamento del clima potrebbe essere irreversibile.
Bisogna uscire comunque dall’uso degli idrocarburi?
Ci sono cinque motivi per farlo. Uno è il clima. Il secondo: solo in Europa abbiamo centinaia di migliaia di morti premature, anche di anziani che potrebbero vivere qualche anno in più, dovute alle emissioni inquinanti degli idrocarburi. Inoltre, sono una fonte non rinnovabile, non durerà centinaia di anni, ma decine. Prima o poi il tesoro sottoterra finirà. Quarto: bisogna tenere conto della volatilità dei prezzi economici. Il gas è passato da 15 euro al megajoule a 100, poi a 20 e quindi è tornato a 40. Come si fa a programmare il futuro economico in questo modo? Il quinto motivo è, come dicevo, la pericolosità geopolitica: le riserve sono in zone del mondo in cui può succedere di tutto: Medio Oriente, Russia, Venezuela. Siamo seduti su una polveriera.
(Paolo Rossetti)
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