Quando ad una conferenza sul clima arrivano in undici giorni 51.000 (diconsi cinquantunomila) delegati accreditati c’è già in partenza qualcosa che non quadra, visto che gli illustri partecipanti al COP29 a Baku non ci sono certo arrivati a piedi.
Al netto, quindi, degli affari d’oro per hotel, agenzie di viaggio e compagnie aeree c’è da chiedersi a che cosa servano questi continui summit mondiali organizzati soprattutto per ridurre il consumo di combustibili fossili quando – sembra una presa in giro – vengono organizzati proprio in quei Paesi che campano sul petrolio.
Tra l’altro, secondo Openpolis, a Baku sono rappresentati ufficialmente più di 2.500 gruppi o aziende portatrici di interessi pro-combustibili fossili.
I presupposti della conferenza di quest’anno sono effettivamente pessimi, con il passaggio di consegne alla presidenza dal dirigente petrolifero Sultan Ahmed Al Jaber (presidente della Cop28 negli Emirati Arabi l’anno scorso) al ministro dell’ambiente azero Mukhtar Babayev, ex manager dell’oro nero della compagnia di Stato azera Socar.
Delegazioni foltissime, comunque, ma mancano i leader anche rispetto allo scorso anno: non partecipano premier come Emmanuel Macron, Luiz Inacio Lula da Silva (che ospiterà la prossima COP in Brasile), Ursula von der Leyen oltre a quelli cinese ed indiano.
Quest’anno poi sul summit si allunga l’ombra della nuova presidenza Trump. Sì, perché state sicuri che per qualsiasi disastro ambientale del prossimo quadriennio la responsabilità sarà sua, l’uomo-nero di Washington dipinto come insensibile al futuro del pianeta e ansioso di inquinare ed estrarre il più possibile e quindi colpevole di ogni nefasto guasto climatico.
Effettivamente il Paese con più peso politico ed economico del mondo potrebbe presto uscire dagli Accordi di Parigi del 2015, visto che – secondo quanto riferito dai media – Donald Trump avrebbe già pronto il decreto da utilizzare nel primo giorno del suo secondo mandato a Washington mettendo fuori dai giochi la prima potenza mondiale e il secondo più grande produttore di gas serra al mondo. Perché pochi ricordano che anche la Cina ha sottoscritto gli Accordi di Parigi, ma non li ha minimamente mantenuti e anzi l’inquinamento cinese “pesa” come elemento maggiore sulla diffusione di CO2 in atmosfera.
Se infatti si va a guardare nel ginepraio delle statistiche (spesso in contraddizione una con l’altra, perché anche sui numeri c’è “guerra”) si scopre che la Cina – con 9,9 miliardi di tonnellate di CO2 emesse – ne diffonde più del doppio degli Stati Uniti (4,5 miliardi di t) e quattro volte l’India, che – con 2,3 miliardi di t – conquista la terza posizione, anche se Cina ed India crescono in emissioni molto più velocemente delle nazioni occidentali.
E noi? Bruxelles gongola e si dà le arie da prima della classe sostenendo che nel 2023 l’Europa ha tagliato le emissioni di gas a effetto serra dell’8,3% rispetto al 2022. Sarebbe davvero un primato, mai si è registrata un’azione così forte nel ridurre CO2, protossido di azoto ed emissioni fuggitive di metano come in Europa. Per questo la Commissione europea esulta pubblicando – lo ha fatto la scorsa settimana – la relazione 2024 sui progressi dell’azione per il clima, da cui emerge appunto che le emissioni nette di gas a effetto serra dell’Ue hanno avuto il più marcato calo annuo degli ultimi decenni.
Il problema è però che l’Europa tutta intera produce circa solo il 7% della CO2 mondiale mentre la Cina è di gran lunga il Paese che ne produce di più: il 33% del totale nel 2021. Da sola supera quindi la somma delle quattro economie che la seguono: Stati Uniti (12,5%), Unione Europea (7,3%), India (7%) e Russia (5%).
C’è poi da considerare anche il costo di questa scelta energetica per gli europei e il fatto che il solo aumento di CO2 prodotto dalla Cina ha di gran lunga superato ogni “risparmio” europeo. Per l’ennesima volta si torna quindi al punto di partenza: o chi inquina di più si impegna effettivamente a ridurre le immissioni o quel “ il green è bello” Made in Bruxelles a livello globale non conta (quasi) niente.
La partita di Baku si gioca però anche sulle “compensazioni” da dare ai Paesi “poveri” come contropartita della rinuncia ad aumentare eccessivamente il loro carico inquinante e si parla di mille miliardi di dollari, una somma colossale che qualcuno (i più ricchi) dovrebbero pagare.
Somme che comprensibilmente richiamano come il nettare per le api mega-delegazioni sia di potenziali beneficiari che di (prudenti) potenziali pagatori.
Ne uscirà probabilmente anche quest’anno un nulla di fatto, ma – al di là di ogni ironia – questa non è certamente una bella notizia per le conseguenze sul clima mondiale, anche se la partita non si può giocare solo sulle emissioni dei gas serra ma anche su innumerevoli altre iniziative ecologiche per la conservazione del pianeta di cui però – al confronto – si parla comunque troppo poco.
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