Sembra aumentare il fenomeno dei dink (dual income no kids), cioè quelle coppie (famiglie o conviventi) che, a fronte di un doppio stipendio, decidono di non avere figli. La narrazione attuale si concentra sulla maggiore libertà che questa scelta comporta, in termini economici e di svaghi vari. È indubbio che, davanti a un costo stimato di 175 mila euro per bambino dalla nascita ai 18 anni (cfr. Federconsumatori), il fatto di non avere figli comporti un risparmio non indifferente, con conseguente diversa distribuzione delle risorse.
Il punto dell’esaltazione di questo fenomeno è abbastanza evidente: nessun figlio, dunque una coppia più felice. A fronte del calo demografico “aumentano le famiglie con un doppio stipendio che scelgono di vivere una vita più ‘appagante’ a livello individuale, concentrandosi sulla relazione a due e sugli obiettivi di carriera” (La Repubblica). Non si vuole certamente qui porre alcuna condanna su una scelta legittima, ma forse servirebbe una narrazione di tipo diverso non tanto (o non solo) per la crisi demografica, purtroppo ancora trattata come se fosse un argomento “di destra” e non un’emergenza nazionale, ma per sottolineare nuovamente un fatto: chi sceglie di avere più reddito e nessun figlio è libero di farlo, ma non è libero chi vorrebbe avere figli e non può. Il problema dunque si pone quando le persone che vorrebbero avere dei figli non possono farlo, anche, per restare in tema, se dovessero avere un doppio reddito.
È qui che la narrazione è erronea: non c’è bisogno dell’esaltazione di chi non vuole avere figli, come accaduto ad aprile 2024 a proposito delle italiane childfree, ma piuttosto c’è la necessità di aiutare il dibattito sulla non corrispondenza tra il forte desiderio di maternità presente nel Paese e l’effettiva natalità. Bisognerebbe chiedersi quali sono i motivi di questa forbice tra i due dati e quali soluzioni si potrebbero applicare. Il dibattito sembra invece fermo a una visione della natalità e dei figli come ostacolante al pieno realizzarsi delle persone, inteso in senso esclusivamente materialistico. Certamente se la presenza di figli impedisce di fare carriera il problema non sono i bambini, ma il sistema del mercato del lavoro: chi sceglie la carriera e non fa figli compie una scelta legittima, ma questo non deve indurre a pensare che il problema siano i figli. La soluzione, al contrario, dovrebbe essere quella di ripensare il mondo del lavoro (come in parte, anche se molto lentamente, si sta facendo), implementando soluzioni a sostegno della maternità e della paternità, non solo durante i primi mesi.
Ecco allora il punto centrale: ci sono coppie che non possono avere figli perché questi, in Italia, sono la seconda causa di povertà. Se infatti il costo per figlio fino a 18 anni è la cifra citata inizialmente (175 mila euro), gli sforzi politici, di welfare e della narrazione andrebbero fatti nella direzione del supporto a chi non può permettersi di sostenere una tale spesa, come se avere un figlio fosse un bene di lusso e non il compimento di un naturale desiderio di paternità e maternità.
Serve quindi un doppio lavoro: riconquistare un linguaggio di bellezza familiare e supportare ogni sforzo intelligente per far sì che chi vuole far figli li faccia e, proprio per questo, sia aiutato dalla collettività. Perché i bambini non sono un ostacolo al compimento dell’uomo e della donna, ma al contrario sono un dono prezioso e un tesoro di tutta la comunità.
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