La Roma stecca la prima di campionato contro il Cagliari in casa. Dopo essere stata eliminata in Europa League dallo Slovan Bratislava. E dopo aver vinto, senza patemi, solo contro l’Alto Adige in precampionato. Risultati che sono sotto gli occhi di tutti ma che messi in fila fanno impressione. Fotografano una situazione potenzialmente esplosiva, figurarsi in una piazza come Roma. Tra gufi, becchini e orfani della Sensi (quasi tutti giornalisti) che dall’inizio del calciomercato estivo non fanno che celebrare un funerale al giorno alla americanRoma. Gli stessi signori (giornalisti) che solo un anno fa cellebravano i grandi acquisti a parametro zero di due trentenni brasiliani, Fabio Simplicio e Adriano. Tutti poi sappiamo che apporto hanno saputo dare alla squadra questi due calciatori. Ma la memoria è breve e bugiarda, per alcuni. E allora dopo soli 12 mesi passano inosservati 11 acquisti in un’unica sessione di mercato, tutti potenzialmente titolari. Molti giovani, tra i più bravi in circolazione. Nessuno a parametro zero. Un investimento di oltre 50 milioni. Cosa che non si vedeva dai tempi della Roma di Fabio Capello. Di certo in molti si ricordano della gestione Capello. Il primo anno la Roma arrivò, se non sbaglio, quinta. L’anno successivo vinse lo scudetto. Il primo anno servi come rodaggio, fu l’inizio della rivoluzione che in sole due stagioni riportò lo scudetto nella Capitale. Stessa sorte per la Roma di Luciano Spalletti, forse la più bella e divertente degli ultimi 10 anni. Nel 2006/2007, primo anno spallettiano, i giallorossi furono sconfitti al debutto in casa contro l’Udinese per 0-2, e nelle prime 8 giornate di campionato rimediarono figuracce a ripetizione. Alla nona giornata, sul campo di San Siro, una Roma all’ultima spiaggia, depressa e lacerata, usciì inaspettatamente vittoriosa per 3-2. Giocatori e allenatore presero fiducia e capirono che la “rivoluzione” era possibile. E bene, ne scaturirono 11 vittorie consecutive culminate nel successo del derby con la Lazio e concluse con un pareggio in casa contro l’Inter. La stessa Inter che la americanRoma affonterà nell’anticipo di sabato prossimo a San Siro. Senza voler forzare la storia, i semplici fatti ci suggeriscono che a Luis Enrique potrebbe toccare la stessa sorte dei suoi illustri predecessori. C’è un’altra statistica che gioca a favore del tecnico asturiano. Nell’ultimo campionato alla guida del Barcellona B, nella seconda divisione spagnola, la sua squadra dopo 5 giornate era in fondo alla classifica. La stessa squadra ha poi chiuso la stagione al terzo posto con una promozione in serie A. Quel terzo posto che in Italia significherebbe i preliminari di Champions. Per fare un altro esempio recente, stavolta di casa nostra, parliamo dell’Udinese dei miracoli di Guidolin. Lo scorso anno, dopo le prime 5 giornate, aveva raggranellato la miseria di 0 punti e tanto bel gioco, finendo poi per centrare i preliminari dell’Europa che conta. Questi esempi non devono servire da alibi per giustificare un inizio disastroso. ma aiutano a capire che un ambiente sereno, una società equilibrata e un Progetto (conditi con tanta pazienza) possono portare ai risultati. E questi ingredienti nella nuova Roma ci sono tutti. A partire dal Progetto. Senza dimenticare però la premessa fondamentale: la de-romanizzazione della Roma. O meglio la sprovincializzazione. Non a caso è stato scelto un direttore sportivo competente (tra i migliori in circolazione) e appassionato, ma non tifoso e un allenatore straniero fuori dalle logiche italiane e paesane.
La colonia dei dirigenti tutto “core” è stata liquidata con gentilezza. Il presidente Dibenedetto e Franco Baldini (Dg da ottobre) vogliono costruire il Progetto a partire dalle fondamenta. Cioè dalla società. Per questo vogliono una squadra di manager non più ricattabile dalle cricche romane (giornalisti, procuratori, ecc) e dai mal di pancia di una parte della Curva. Se la Roma vuole vincere ha bisogno che la città di Roma vinca la sua partita più importante: quella della maturità. I tifosi romanisti devono mantenersi così come sono, innamorati e un pò matti. Senza scivolare nella tentazione di andar dietro a quei soloni di turno che ogni giorno si divertono a buttare giù dalla torre il loro capro espiatorio. O, quando sono bravi, a creare il “caso” della settimana o dell’anno, come l’affaire Totti… Ma la presenza massiccia domenica all’Olimpico e l’applauso finale alla squadra sconfitta sono l’unica risposta e il risultato più bello. Ancor più dei 3 punti. Sono la prova che una rivoluzione culturale è possibile. Anche a Roma. Sono l’inizio di una emancipazione del tifo da media, radio e tv. Vuol dire che la gente si sta immedesimando nel Progetto. Sa che per costruire serve tempo. E apprezza una società, quella americana, che non promette la luna (ricordate “Rosella bla bla bla…”). Ma molto discretmente ha garantito “solo” massimo impegno e serietà, mettendoci faccia e tanti soldi. Ora tocca a Luis Enrique e ai giocatori fare la loro parte. Occorre amalgama, confidenza col nuovo sistema di gioco. I giovani devono integrarsi coi vecchi. E il mister, con un pò di elasticità, deve riuscire a risolvere alcuni “fraintendimenti” tattici di mercato: Osvaldo (il più costoso) non è un esterno d’attacco ma un vice Totti, stesso discorso vale per Borrriello. Mancano attaccanti esterni di ruolo per il classico 4-3-3, come manca un terzino destro. Il modulo va forse rivisto trequarti di campo in su. Un 4-3-1-2, oppure Bojan/Borini e Lamela a supporto di Totti (Osvaldo o Borriello). Soluzioni che richiedono un briciolo di buona sorte e molto coraggio. E Luis Enrique ha già dimostrato di non guardare in faccia nessuno. Sempre nel nome del Progetto.
(Claudio Franchini)