Adesso che nelle librerie italiane esce Stella Maris, l’ultimo lavoro del recentemente scomparso scrittore americano Cormac McCarthy, vale la pena spendere ancora due parole sul precedente, Il passeggero, che a questo è legato in una diade di romanzi.

Bisognerebbe mettere una targhetta sulle copertine dei libri di Cormac McCarthy, come si faceva una volta con i dischi: attenzione la lettura è sconsigliata a… Nel caso del suo ultimo libro, Il passeggero, uscito postumo per un soffio, bisognerebbe avvertire tutti coloro che soffrono di disturbi mentali o che nella loro vita hanno a che fare con una persona colpita da schizofrenia, di non leggerlo, perché il risultato potrebbe essere devastante.



Come ci aveva già abituato nelle sue opere precedenti, lo scrittore americano non ha pietà alcuna a descrivere il male (“Il mondo non ha creato un solo essere vivente che non intenda distruggere” scrive). Nei suoi libri precedenti le pagine grondavano del sangue di vittime innocenti ammazzate  da psicopatici vari o di uomini sopravvissuti a una apocalisse che tengono altri uomini in cantina per poi mangiarseli. Ne Il passeggero, il lento scivolare della sorella del protagonista (che, lo dice sin da subito, si è ammazzata) nella schizofrenia paranoide è descritto in maniera così lucida e accurata in ogni dettaglio che è quasi impossibile continuare a leggere. Fa troppo male.



Chi era Cormac McCarthy? Un cinico sadico, che godeva nel descrivere la sofferenza? Certamente no. È stato, invece, dai tempi di Dostoevskij il più lucido narratore dell’essere umano. Senza fare sconti, senza moralismo, senza bigottismo. Perché il male è reale e si infila in ogni piega dell’umano. Ma anche il bene. Solo che il bene fa meno rumore, è meno visibile, ma McCarthy, nella sua lucidità, ne lascia tracce qua e là: “Pensò che la bontà divina appare in posti strani. Tieni gli occhi aperti” pensa il protagonista de Il passeggero.

In questo modo, Il passeggero supera il concetto stesso di romanzo, lo fa a pezzi. È sì un thriller, ma è oltre. Chi ha mai messo in un romanzo oltre venti pagine di discussione estenuante sulla fisica quantistica e i risultati e i fallimenti raggiunti nel corso degli anni? Lo stile scarno e allo stesso tempo dettagliato dell’autore raggiunge qui il suo vertice: dialoghi serrati senza virgolette che aiutino il lettore a districarsi, e poi le strade e le bettole di New Orleans raccontate in ogni dettaglio. I protagonisti: un trans, un uomo innamorato della sorella suicida, un alcolizzato, un veterano della guerra in Vietnam e altri reietti vari. Insomma dei perdenti, fuori dagli schemi ordinati della società moderna. Bobby, il personaggio di cui si narrano le vicende romanzesche, che si porta addosso i peccati del padre (uno dei fisici che collaborò alla costruzione della prima bomba atomica), viene svuotato di ogni possibilità, per farlo aderire il più possibile alla realtà, alla cosa in sé che è il mondo, che si faccia in tutto e per tutto non letteratura, ma esistenza, che in qualche modo diventi un nuovo strumento per dire il mondo. Questo il compito che McCarthy si è assunto: dire il mondo e il mondo purtroppo contiene più male che bene. Dire quello che non vogliamo sentirci dire e cioè che “non esiste un terreno comune della gioia come esiste del dolore. (…) Ogni realtà è perdita e ogni perdita definitiva”.



E chi sono i protagonisti di quest’opera? Persone travolte dalla vita che in modo estenuante cercano un significato alla vita stessa: siano vecchi studiosi di fisica che si trascinano piegati in due nei corridoi delle università dopo il fallimento dell’ennesimo calcolo matematico che avrebbe dovuto svelare il significato del mondo stesso (“La fisica cerca di fornire una rappresentazione numerica del mondo, in effetti non so se spieghi tutto. Non si può illustrare l’ignoto”) e che hanno dimenticato nel loro orgoglio la domanda unica: “Se non siamo alla ricerca dell’essenza, allora cosa cerchiamo?”, sia una ragazza schizofrenica in preda ai deliri, sia il protagonista stesso, Bobby, che un amico definisce con brillante senso dello humor nero “un accumulatore di infelicità”.

Tra citazioni di Grothendieck e Gödel, Maxwell e Feynman, Kant, Schopenhauer e Wittgenstein si trascina un devastante ritratto della società odierna: “In una società i veri guai cominciano quando la noia diventa il suo tratto più diffuso. La noia spingerà anche i più tranquilli a imboccare strade che mai avrebbero immaginato”.

A frasi come “Niente è per sempre” e “I morti non possono ricambiare l’amore” fa contraltare la domanda che ha ferito il cuore di McCarthy per tutta la vita: “Albergherà nei bambini futuri una nostalgia di qualcosa che non sapranno nemmeno nominare?”. Così come una traccia di tenerezza ultraterrena, quando il nano osceno che abita la mente malata della ragazza suicida, in un raro momento di tenerezza, le dice: “Coccolenza ascoltami. Non saprai mai di cosa è fatto il mondo. L’unica cosa certa è che non è fatto di mondo. Qualunque indagine soppianta ciò che indaga” e una certezza, “Se qualcosa non ti avesse amato non saresti qui”.

Stella Maris si annuncia ancor più devastante de Il passeggero, non è un libro per tutti, anche se fa figo oggi mostrare nella propria libreria l’opera completa dello scrittore americano. Come ha scritto il giornale americano Boston Globe, “McCarthy è uscito di scena con un fremito poderoso. [Nel Passeggero e in Stella Maris] riecheggiano non solo i suoi più grandi successi, ma un intero pantheon della letteratura americana: il linguaggio barocco e il giro di frase di Faulkner; il dialogo conciso e laconico di Hemingway; la paranoia poetica di DeLillo…”.

Cormac McCarthy può aver avuto una idea destabilizzante di Dio, ma scriveva da Dio.

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