Quando Cornel West inizia ad insegnare filosofia a Princeton nel 1988, la sua fama di intellettuale provocatorio di sinistra e fervente attivista politico lo precede. Tra i tanti incuriositi dall’arrivo in campus del filosofo afroamericano, nipote di un pastore battista e cresciuto “nella zona ‘cioccolato’ di Sacramento (CA)”, come si autodefinisce, c’è Robert George, professore di giurisprudenza appassionato di Platone e Tommaso d’Aquino, etichettato dal New York Times “il più influente pensatore cristiano conservativo” d’America.
Le strade dei due si incrociano qualche anno dopo, in una doppia intervista reciproca per il giornale studentesco di Princeton. Alla fine, la conversazione prosegue nel parcheggio. “45 minuti dopo, Robbie era ancora lì con la mano sulla portiera, e siamo andati avanti per altre due ore a discutere di Platone, Aristotele, Kant, Kierkegaard…”. L’entusiasmo per quel primo incontro è tale che i due decidono di continuare la discussione di fronte alle matricole di Princeton, in un nuovo seminario che da lì in poi iniziano ad insegnare insieme ogni anno sui “Great Books”, discutendo di virtù, giustizia e verità a partire dalle opere dei grandi pensatori del passato, da Sofocle a Solzenicyn, da Agostino a Marx. È una “paideia” in azione quella che avviene in aula, secondo la tradizione greca di formazione della persona e alla costruzione della comunità attraverso l’incontro con l’altro e il dialogo aperto ed acceso.
Certo i due non potrebbero essere più diversi, per storia, temperamento, formazione e allineamento politico. Eppure, come raccontano in un pomeriggio assolato di fine luglio per una delle interviste della serie Not too much to ask, che è stato possibile ascoltare domenica nell’ambito del Meeting di Rimini, tra loro nasce un rapporto “ancora più profondo dell’amicizia”. Fondato, dice George, sulla comune passione per “la ricerca della verità. Negli anni della giovinezza, ci siamo entrambi beccati quel virus, quella febbre, quel desiderio di verità. È ciò che Socrate chiama il diamante, ed è sempre lì a spingerci, a pungolarci”.
Una passione per la verità che per i due amici travalica le differenze politiche, senza dover rinunciare ad esprimere e discutere con forza le proprie idee. Perché, prima di ogni divergenza, “una delle cose che davvero unisce me e il fratello Robbie,” osserva West, “è il profondo sospetto verso tutte le forme di ortodossia, sia liberale, marxista, conservatrice, o addirittura cristiana”. E il dramma è che nel nostro tempo siamo così immersi in tutte queste forme di dogmatismo che non ce ne rendiamo neanche conto. E allora?
“Credo che la prima questione sia far rendere conto alla gente che ha bisogno di essere liberata. Le persone sono talmente conformate alle forme dominanti del mondo che pensano che siano esse la forma stessa della libertà, e dunque pensano di essere già libere”. “Distratti per distrazione da distrazione”, secondo la meravigliosa espressione di T.S. Eliot. È come, continua West, se ci trovassimo a vivere “in una cultura di armi di distrazione di massa”.
E dunque, in un mondo così dominato da forme di potere, mancanza di libertà e superficialità dilagante, cosa rende possibile ai due amici di continuare imperterriti in questa ricerca della verità, senza fermarsi a facili compromessi o farsi ricattare dalla ricerca dell’applauso e del consenso?
“Io so cosa ha reso Cornel West la persona che è, quel Cornel West che amo ed ammiro”, interviene George. “È il fatto che qualcuno lo ha amato di un amore incondizionato. Due persone, sua madre e suo padre, gli hanno trasmesso queste virtù amandolo più di ogni altra cosa al mondo; che non significa affatto che lo affermassero costantemente in tutto ciò che faceva”.
E se quell’amore incondizionato è il seme, proprio la “fratellanza” tra George e West è ciò che fa sì che questa apertura stupita alla realtà e questa sete di verità col passare degli anni diventino sempre più indomabili. “Siamo fedeli fino alla morte”, puntualizza West. “E non solo: ci rallegriamo e ci divertiamo insieme. Cerchiamo la bellezza. Robbie suona la chitarra e io lo accompagno cantando un po’ stonato. Andiamo a trovare le famiglie l’uno dell’altro. Ci buttiamo a capofitto in tutte le varie dimensioni della vita”.
Un fuoco che divampa e diventa una luce che brilla nel buio del mondo, come dice la canzone che i due professori amano cantare assieme, This Little Light of Mine. Perché, spiega West, “questa piccola luce in noi è il Regno di Dio che ci portiamo ovunque andiamo, lasciando al nostro passaggio un piccolo pezzetto di paradiso. Con la nostra presenza, i doni che abbiamo e che diamo agli altri, le parole che diciamo, la vita che viviamo e l’amore che in qualche modo cerchiamo di imitare”.
E l’amicizia è allora il ricordarsi a vicenda di questa luce che sfolgora quando in costante rapporto con un Dio che ci ama. Anche quando tutto sembra avverso, come nelle drammatiche circostanze degli ultimi mesi. Ma, conclude West, “non dobbiamo farci sorprendere dal male, qualunque forma esso assuma, e non dobbiamo mai essere paralizzati dalla disperazione. Chi non si è mai disperato, non ha mai vissuto. E ora tutto il mondo ha il blues, la malinconia. Tutti hanno delle ferite. Ma il bivio nella strada della vita di ciascuno è: Cosa farai di queste ferite? Diventerai un uomo ferito che odia, che picchia, e che infligge ancora più ferite nel mondo, o diventerai un ferito amante, uno che ama e risana?”