I freddi numeri che ogni giorno ci vengono forniti attraverso veri e propri bollettini di guerra, i nostri problemi personali come fare la fila ai supermercati o l’impossibilità di andare al bar, ci distraggono e non ci fanno capire veramente la guerra che si sta combattendo in Italia per fermare il coronavirus e soprattutto salvare quante più vite possibili. La prima linea, l’inferno, è al momento a Bergamo e Brescia, dove si registrano altissimi numeri di casi gravi contro i quali una sanità limitata nei mezzi e nei numeri deve far fronte. Ce ne ha parlato il professor Francesco Castelli, ordinario di malattie infettive all’Università degli studi di Brescia, già titolare della Cattedra Unesco e direttore della Scuola di specializzazione in malattie infettive: “In tre o quattro giorni abbiamo dovuto recuperare 500 posti letto chiudendo dei reparti e facendo spazi nuovi. Il numero dei malati, soprattutto anziani, è sempre più alto, sentiamo la fatica di dieci anni di lavoro continuo”. Una fatica, quella del personale sanitario, che poi deve fare i conti con la preoccupazione per le proprie famiglie e i colleghi: “Quando una persona con cui hai lavorato per anni si ammala e muore, il dolore è profondo”. Nonostante tutto questo, ci ha detto, “siamo tutti determinati a combattere, sentiamo la vicinanza del popolo italiano che ci conforta e ci sostiene con segni esteriori e non formali”.
Lei ha operato a lungo in Africa, continente dove le epidemie sono una costante, che cosa ci può dire del coronavirus?
Ho avuto a che fare con epidemie di altra natura, come il colera, dove la trasmissione non è per via respiratoria. Quello che stiamo vivendo è differente come modalità di trasmissione e contesto. Però la situazione è emergenziale, e sotto questo profilo ciò che viviamo adesso è simile a quanto ho visto in Africa.
Come scienziato e studioso, sa dirci se un virus di questo tipo era atteso o no?
Purtroppo sì, sta succedendo quello che si temeva da sempre, che potesse avvenire una pandemia. I virus respiratori di possibile provenienza animale dovuti alla combinazione di questi coronavirus erano sotto sorveglianza e temuti da molto tempo.
Eppure è esploso così, improvvisamente?
Questo virus è simile geneticamente a quello della Sars di 17 anni fa, ma ha una caratteristica di contagiosità superiore, lo si vede dalla velocità con cui si diffonde. Dall’iniziale focolaio di Codogno si è passati a Pavia, quindi a Lodi, ora siamo a tutta la Lombardia e alla continua espansione in altre Regioni. Non sappiamo quando finirà e non sappiamo il numero di persone contagiate.
In che senso non si sanno le persone contagiate?
Sappiamo il numero di malati. Questa malattia si manifesta in forme gravi soprattutto in alcuni soggetti anziani che soffrono di patologie e arriva fino al decesso, nelle fasce più giovani invece può indurre contagi asintomatici, quindi il numero delle persone contagiate ci è ignoto perché non manifestano sintomi. Pensiamo sia un numero importante. L’80% degli infettati non manifesta sintomi o li manifesta in misura ridotta, il rimanente manifesta polmoniti e negli anziani dà manifestazioni gravi. È quello che stiamo vivendo, con la difficoltà di dare una risposta ospedaliera su tutto il territorio.
Si può dire qualcosa del futuro?
È difficile da prevedere perché è una combinazione di diversi fattori, tra cui il numero delle persone contagiate. Ogni quarto d’ora vediamo una ambulanza che passa. Il secondo elemento è che non sappiamo quanti stiano creando una immunità al virus, cosa che potrebbe limitare la diffusione. Chi si occupa di elementi matematici indica verso la fine di marzo il picco, ma lo sapremo solo a bocce ferme.
A Brescia c’è una delle situazioni più difficile, ce la può raccontare?
Abbiamo dovuto chiudere numerosi reparti, accorparli e renderli liberi per accogliere queste persone. Riusciamo a dimetterne qualcuno, adesso siamo a 500 posti letto. Può immaginare lo sforzo che significa. Non sono tutti ricoverati nelle unità infettive, ma in tutto l’ospedale.
Di cosa avete maggiormente bisogno in questo momento?
Le esigenze sono due. La prima è riuscire a liberare sempre più posti letto, però è uno sforzo enorme. Fortunatamente adesso si sono attivati altri ospedali nel territorio bresciano. L’esigenza è dare almeno un letto a chi sta male. Comporta uno sforzo interno enorme.
La seconda?
La seconda cosa non è semplice: avere i dispositivi di protezione necessari per il nostro personale sanitario. La nostra farmacia fa un lavoro estenuante per dotare gli operatori sanitari di mascherine, camici per proteggersi. Questo è un altro problema. In conseguenza dell’elevata contagiosità può portare al contagio fra operatori e riduce le risorse umane. Se i soldati si ammalano non possono combattere. Tutto è molto concitato, si lavora 24 ore al giorno, sette giorni su sette, è un continuo di problemi. È impressionante la rapidità con cui l’ondata epidemica ha colpito tutta la Lombardia, non ha dato il tempo giusto per le misure straordinarie. Mi sembrano siano passati 10 anni dalla fatica che abbiamo addosso.
A proposito di fatica, come è il morale del personale sanitario?
Siamo molto determinati. Naturalmente c’è preoccupazione quando si vede una situazione così grave. Vedere queste persone che muoiono completamente sole non è facile. Siamo anche preoccupati per i colleghi, quando si lavora insieme per anni si è tutti amici e vederli ammalati procura dolore e fatica. Ovviamente c’è poi la preoccupazione per le proprie famiglie, che non si contagino. Ma siamo determinati a portare la barca in porto e fare il nostro lavoro.
(Paolo Vites)