In questi giorni del Coronavirus, giorni di paura, di spostamenti limitati, di abitudini sconvolte, di crescente individualismo e di diffidenza verso il vicino, chi si trova a visitare la cattedrale di Catania, priva di liturgie e di turisti, può ammirare con calma un dipinto di Alessandro Abate che ritrae una scena del 1887. La tela raffigura l’allora arcivescovo della città, il cardinale Giuseppe Benedetto Dusmet, nell’atto di entrare in una stamberga di un quartiere popolare per prestare soccorso a una donna ammalata e ai suoi numerosi familiari.
Nel pieno di un’epidemia di colera che stava decimando la città, ad appena venti anni dalla confisca dei beni monastici e della cacciata dei religiosi da Catania, prefetto, sindaco e giunta comunale decisero di affidare i pieni poteri al cardinale arcivescovo Giuseppe Benedetto Dusmet, benedettino, che non era affatto un politico. Perché mai? L’arcivescovo era un grande uomo di carità, e in quel frangente laddove non bastavano più le regole sanitarie e le leggi l’ultima arma restava proprio la solidarietà. Per aiutare malati e poveri, il cardinale aveva portato al banco dei pegni tutti i propri beni, fino alle posate, alla croce pettorale e alla biancheria ricamata. Così egli aveva potuto sostenere molti indigenti. Quella pratica di solidarietà diffusa ebbe un altro effetto: ricostruì il tessuto sociale della città, perché molti ne seguirono l’esempio. E sindaco e prefetto, per quanto laici e anticlericali, non poterono fare altro che prenderne atto. E persino gli uomini del socialista Giuseppe De Felice si ritrovarono in quelle circostanze al fianco di Dusmet.
Questo episodio ci aiuta a capire che nei momenti di paura e di grave emergenza sanitaria accanto alle rigide misure di contenimento del contagio, necessarie, bisogna favorire tutto ciò che ricuce i legami sociali e combatte cinismo e individualismo.
“Io resto a casa” ci ripetono in continuazione i divi della tv, testimonial della campagna del governo contro il coronavirus. E, nelle loro testimonianze, non mancano di specificare che a casa possiamo seguire tutti i programmi tv che vogliamo, connetterci virtualmente con i nostri familiari lontani o con gli amici, possiamo vedere i film che desideriamo, e persino seguire le lezioni scolastiche o universitarie sdraiati comodamente sul nostro divano.
In questo momento, lo comprendiamo, la priorità del governo è la salute dei cittadini minacciata dal coronavirus. Ad essa va sacrificato tutto. Ma forse è opportuno accendere un faro di attenzione sulla sfida del momento (il rischio di vedere negli altri un nemico) e sull’emergenza che si preannuncia: in questa crisi una fascia di popolazione può essere definitivamente messa ai margini.
Le scuole e le università si stanno, giustamente, attrezzando per la didattica a distanza. Molti docenti hanno cominciato, anche al Sud, a tenere lezioni online utilizzando piattaforme di Google o di Microsoft: così, si dice, diamo a tutti la possibilità di poter continuare a studiare guidati dai prof. Ma quei docenti che hanno a cuore la persona dei loro allievi più dei progetti da portare a termine ad ogni costo, cominciano a rilevare che ci sono studenti che non seguono le lezioni online né sono impegnati coi compiti assegnati a distanza. E non lo fanno per disinteresse ma semplicemente perché non hanno lo smartphone o il computer o, ancor peggio, una casa in cui studiare.
Può sembrare un paradosso nel 2020. Ma chiedete alle associazioni di volontariato e solidarietà che si occupano di educazione nei quartieri a rischio delle città del Sud e vedrete che questi casi non sono un’eccezione, se è vero che proprio alcune di queste associazioni stanno promuovendo una rinnovata assistenza ai senza tetto e una raccolta di cellulari e tablet per permettere agli studenti svantaggiati di poter stare al passo coi loro compagni.
Dite ai ragazzi dei quartieri degradati di Catania o Palermo o Napoli, che talora una dimora degna di questo nome non ce l’hanno: “Restate a casa, continuate a studiare dalla vostra abitazione con l’ausilio del computer”. Non vi capiranno. In questo modo rischiamo di perdere per strada migliaia di studenti dei quartieri popolari.
In questi momenti tutto si può fermare, eccetto la solidarietà. Anche nella migliore delle ipotesi, infatti, può capitare di essere connessi virtualmente col mondo, ma di restare soli, disconnessi dalla realtà reale, fatta di persone, di problemi, di gioie, di affetti. Eppure da più parti sta rinascendo un’attenzione agli ultimi partendo dai bisogni concreti e nelle strade delle città del Sud si vedono tanti imitatori del beato cardinale Dusmet: Biagio Conte a Palermo; Giuseppe Messina nel Catanese; i volontari di sant’Egidio in varie parti del Meridione; i volontari dell’Associazione “Don Bosco 2000” nell’Ennese e a Catania; i giovani dell’Associazione Cappuccini nel cuore degradato della città etnea. Ognuno fa la propria parte: chi offre aiuti alimentari, chi distribuisce disinfettante alle famiglie dei quartieri popolari, chi inventa occasioni e modalità nuove per sostenere i ragazzi in difficoltà a non abbandonare lo studio, chi soccorre o ospita i senza fissa dimora. E tutto comunica una speranza per vivere.
La solidarietà non può fermarsi, perché verrebbe a mancare il collante che tiene insieme la società. Ma oggi, come accadde a Catania nel 1887 durante l’epidemia del colera, c’è forse bisogno anche che apriamo gli occhi su questi punti di luce che ci possono aiutare a superare la gravissima circostanza che stiamo vivendo.