Gli alti dirigenti calabresi fanno brutta figura, ma questo è solo un sintomo di una patologia più complessa. L’emergenza coronavirus rischia di essere il colpo finale e letale per la sanità calabrese. Ma potrebbe paradossalmente essere anche il punto di partenza per adeguare il sistema sanitario regionale a standard almeno uguali a quelli nazionali. Occorrono però coraggio e capacità di decisione.



Al di là delle brutte figure televisive, passate e recenti, dei due dirigenti regionali incaricati dalla presidente Jole Santelli di curare l’emergenza, uno, Antonio Belcastro, che parlava della presenza dei “topini” che sarebbero stati la dimostrazione che in una fondazione (poi chiusa) a cavallo tra Policlinico universitario e sistema sanitario regionale si svolgesse realmente attività di ricerca, fino all’ammissione, da parte di Domenico Pallaria, probabilmente snaturata ed estrapolata dal contesto, di non sapere cosa fosse un ventilatore polmonare, i veri drammi della cattiva sanità in Calabria sono altri, come vedremo più avanti.



Il cattivo giudizio sui massimi vertici burocratici regionali, corresponsabili del disastro sanitario, certo non può assumere caratteri di benevolenza, ma deve essere inserito nel suo giusto grado. I massimi dirigenti regionali calabresi, tutti, godono di indennità di posizione (elemento aggiuntivo della retribuzione) compreso nella fascia tra 45mila e 90mila euro annui. Una situazione certo di privilegio e che genera un do ut des con la classe politica: stiamo insieme, perché insieme garantiamo l’altra parte.

Questo fa sì, unito a privilegi contrattuali garantiti a tutta la burocrazia italiana, che ci sia una sorta di inamovibilità, salvo lo spostamento da una casella all’altra, che crea quella continuità amministrativa ma anche di conoscenza e utilizzo dei meccanismi interni, per cui anche di fronte ad un perentorio quinquennale cambio di schieramento politico, i vertici amministrativi non mutano. L’incidente avviene quando i burocrati finiscono nel mirino dei media e nell’obiettivo di una telecamera: ruolo per il quale non sono preparati e per il quale pagano forti conseguenze.



La sanità in Calabria, quasi per l’intera consiliatura in cui era presidente Giuseppe Scopelliti e per tutta quella governata da Mario Oliverio, vive sotto l’egida e la scure del commissariamento per il piano di rientro voluto e confermato dai diversi governi nazionali che si sono succeduti negli ultimi due lustri.

La crisi, in realtà, ha origini più lontane, fin da quando tutte le strutture sanitarie pubbliche sono state concepite e gestite come un grande ammortizzatore sociale, capace di elargire stipendi in una Regione caratterizzata da una profonda crisi economica. L’idea, molto in voga negli anni 70 e 80 che la garanzia del posto di lavoro e la distribuzione di reddito avrebbero fatto da argine al richiamo della “rivoluzione” degenerata nel terrorismo e a quello delle organizzazioni mafiose, nella punta dello Stivale è fallita, più che altrove, in particolare verso il secondo rischio. La garanzia del posto e dello stipendio non sono serviti a togliere braccia alla ’ndrangheta e questa ha anzi trovato le sue strategie per inserirsi nella sanità pubblica e privata.

Nel settore pubblico, anziché svolgere la funzione di freno, l’ampiezza del budget sanitario ha innescato gli interessi della ’ndrangheta (e della criminalità in genere) senz’altro nelle gare d’appalto, come fornitori o intermediari nelle opere edilizie, nella fornitura di macchinari e in quelle dei materiali di consumo e senza togliere le “braccia” dei picciotti o uomini di onore che anzi avevano la possibilità di agire dall’interno del sistema. Ma anche la sanità privata è probabilmente gestita o condizionata dagli interessi delle mafie.

Una triste e grande occasione che la Calabria ha perso è stata quella di non capire a fondo i mali del sistema all’indomani di quello che è stato il punto più nero, l’omicidio, nel seggio di Locri delle primarie dell’Ulivo, dell’allora vice-presidente del Consiglio regionale, nonché medico e sindacalista, Francesco Fortugno (ottobre 2005). Al di là della verità storico giudiziarie e delle condanne, sarebbe stato quello il momento per far partire una vera inchiesta, non solo ad opera della magistratura, su cosa realmente accadeva ed accade nella gestione della sanità calabrese. Ma prevalsero gli interessi particolari e tattici del momento, di chi voleva mettersi in vetrina o di chi voleva conseguirne un piccolo vantaggio mediatico e politico.

Un grave errore, per il quale stanno pagando conseguenze i cittadini me che ancor più le pagherebbero, in modo disastroso, di fronte ad un’eventuale esplosione anche in Calabria della pandemia di coronavirus, è stato quello di eliminare i piccoli e medi ospedali diffusi sul territorio e qualsiasi servizio decente di medicina territoriale, per accentrare tutto sui tre grandi ospedali di Catanzaro, Cosenza e Reggio Calabria.

Si tratta di tre strutture che indipendentemente dal coronavirus già scoppiavano: tempi di attesa delle postazioni di pronto soccorso misurabili spesso in giorni anziché in ore, reparti saturi, spazi ingestibili e degradati in situazioni logistiche di centro città non funzionali, carenza di personale infermieristico, solo per limitarci ad alcuni aspetti. Si è finiti, anche per questo, nell’abbandonare ospedali costruiti e a volte dotati di attrezzature già obsolete, in zone periferiche nonostante i miliardi di vecchie lire spesi per realizzarli.

Certo avere ospedali con un numero di casi trattati annualmente estremamente basso, come sostengono molti medici, non è una garanzia di qualità, ma manca una strategia d’insieme e spesso si sono inseguite e si inseguono logiche di tipo campanilistico, come quella di avere l’ospedale vicino casa per alcuni politici o quella di chiudere l’ospedale situato nel collegio elettorale del politico avverso.

A questa tendenza auto-persecutoria si sta assistendo anche in questi giorni, relativamente all’emergenza Coronavirus: da un lato si parla di una rete diffusa di punti Covid, dall’altro si concentrano i trattamenti solo nei tre macro-ospedali (hub) regionali. Di fronte ad una casa di riposo per anziani, a Chiaravalle Centrale dove l’ospedale locale è già chiuso da diversi anni ed è stato fortemente ridimensionato quello vicino di Soverato, in cui circa 80 persone tra ricoverati e personale sono tutti contagiati, viene ordinato il trasferimento in ospedale, ma i sindaci dei comuni in cui tali ospedali si trovano, come quello di Lamezia Terme, si ribellano – giustamente – perché l’ospedale locale non è attrezzato a riceverli in condizioni di sicurezza.

Il governo centrale, di fronte ad una vergognosa e drammatica situazione come quella attuale (e che rischia di peggiorare drammaticamente) deve compiere una scelta. Il giano bifronte di una gestione in parte commissariale e in parte affidata alla Regione, non può continuare. Ci si trova di fronte ad un accavallamento di poteri tra l’ufficio del commissario e i commissari delle singole aziende (o meglio plurime, visto che c’è un commissario che ha sotto di sé tre aziende: le due territoriali provinciali di Cosenza e Catanzaro ed il policlinico universitario Mater Domini) e la gestione del Dipartimento Salute della Regione.

L’occasione, al di là del decennale conflitto di potere tra Roma e Catanzaro, è quella di ricostruire, utilizzando soprattutto le professionalità presenti, un sistema regionale sanitario e una rete territoriale ed ospedaliera di sanità efficace. Inoltre dovrebbero essere scovate ed estirpate le tante inefficienze costituite dalla “sanità ammortizzatore sociale” rimuovendo i medici e gli infermieri infiltrati negli uffici, introducendo in tempi rapidi un efficiente (e quindi poco costoso) sistema informativo, creando una rete di postazioni di emergenza territoriale con ambulanze che non abbiano più di 200mila chilometri nel loro passato e tutte dotate di un medico. Servirebbe quindi un grande sforzo per avere in Calabria una sanità normale.

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