Da una parte, l’immagine di Bondi Beach, la spiaggia simbolo di Sydney, riaperta dopo un mese e mezzo di lockdown e subito animata da surfisti pronti a sfidare le onde del Pacifico. Dall’altra, a Wellington, la primo ministro Jacinda Ardern lo scorso 27 aprile ha annunciato: «Lo abbiamo eliminato. La battaglia è vinta». Australia e Nuova Zelanda hanno combattuto, con successo, la lotta contro il Covid-19: due strategie diverse, un unico risultato. In Australia il tasso dei contagi è precipitato dal 25% di fine marzo all’1% di inizio maggio; in Nuova Zelanda il 28 aprile sono stati registrati 3 nuovi casi per un totale di 1.472 contagi: 1.214 sono guariti, 19 i decessi. I due Paesi, che hanno deciso di aprire fra loro una zona sicura di viaggi per far spostare i residenti, hanno adottato misure di allentamento (da sabato 9 maggio in alcuni Stati australiani sono stati riaperti anche bar e ristoranti), seppure accompagnate da precise precauzioni per evitare un ritorno di fiamma dell’epidemia. Perché hanno funzionato le strategie anti-coronavirus? Come hanno vissuto il lockdown australiani e neozelandesi? Ne abbiamo parlato con Barbara Pezzotti, docente di Italian Studies alla Monash University di Melbourne, in Australia, che vissuto per diversi anni anche in Nuova Zelanda.



In Australia che misure sono state adottate?

La risposta si è focalizzata inizialmente sulla chiusura delle frontiere, sulla limitazione degli assembramenti pubblici e su una campagna di tamponi su larga scala. I viaggi internazionali sono stati proibiti, le frontiere sono state chiuse ai turisti – i viaggi dalla Cina sono stati bloccati molto presto, a gennaio – e gli australiani che tornavano da paesi stranieri si sono dovuti sottoporre a una quarantena obbligatoria in hotel dedicati. Le limitazioni sono cominciate a metà marzo e ad oggi incontri sociali tra più di due persone sono proibiti. Si può lasciare la propria abitazione solo per ragioni essenziali, come fare la spesa, allenarsi all’aperto e andare al lavoro, se necessario, o a scuola.



La strategia sembra aver funzionato, non crede?   

Le ragioni principali del successo australiano sono probabilmente le restrizioni sui viaggi: il 70% dei casi accertati è di australiani che hanno contratto la malattia all’estero. L’Australia è un’isola e per questo motivo è stato anche più facile controllare i confini. La malattia si è propagata prima in Europa e l’Australia ha avuto più tempo per prendere le misure necessarie. Secondo Adam Kamradt-Scott, esperto di Global health all’Università di Sydney, le misure di distanziamento sociale hanno avuto effetto, facilitate dal fatto che la maggior parte degli australiani vive in case unifamiliari e non in appartamenti o condomini, come per esempio, in Italia.



Quindi non è stato commesso nessun errore?

Nonostante questi successi, l’Australia ha anche commesso degli errori nella gestione della crisi. Per esempio, il 19 marzo ha permesso lo sbarco di 2.700 passeggeri della nave da crociera Ruby Princess, anche se alcuni di loro presentavano sintomi da coronavirus. Più di 600 casi sono originati da questo errore. Al momento solo il 10% di chi ha contratto il virus non sa da chi l’ha preso. È una percentuale molto piccola, ma che potrebbe aumentare nel caso le limitazioni venissero interrotte troppo presto. L’idea del Governo è di far ripartire alcuni Stati come esperimento, prima di estendere le nuove regole a tutti.

Il sistema sanitario ha retto all’arrivo del coronavirus?

I casi accertati sono finora 6.875 con 97 morti (di cui 44 nel New South Wales), quindi non c’è stata la temuta pressione sul sistema sanitario.

Come hanno vissuto gli australiani il periodo di lockdown?

Il lockdown in Australia non è pesante come quello, per esempio, italiano. Ristoranti e palestre sono stati parzialmente riaperti, la gente può uscire di casa per andare al lavoro o per motivi di studio. Il cibo d’asporto è consentito e si può uscire per fare sport all’aperto. In generale gli australiani hanno osservato i divieti, anche se alcune spiagge sono state aperte e poi richiuse di fretta nelle ultime settimane per via di assembramenti improvvisi. Come in qualsiasi altra parte del mondo, non tutti osservano le regole e ci sono stati casi di persone colpite dal Covid-19 che hanno violato il regime di auto-isolamento.

I ricercatori del Centro per la salute mentale dell’Università di Sydney stimano che potrebbero verificarsi dai 750 a 1.500 suicidi ogni anno per cinque anni a causa dell’impatto della pandemia e delle sue ripercussioni economiche. Lo stress da pandemia è stato molto avvertito dagli australiani?

Anche la sospensione dei vari campionati sportivi pesa sulla psiche dell’australiano medio, grande appassionato di rugby, cricket e football australiano. Gli australiani, poi, sono anche grandi viaggiatori e i viaggi internazionali e fra i vari Stati sono stati annullati e ciò ha pesato, soprattutto nel periodo della pausa scolastica, che coincide con la vacanze di Pasqua. Il 25 aprile viene festeggiato anche in Australia: è l’Anzac Day, il giorno in cui si commemorano i soldati morti nella battaglia di Gallipoli durante la Prima Guerra mondiale. Il divieto di incontri pubblici che coinvolgano più di due persone, con l’eccezione di nuclei familiari, ha fatto sì che quest’anno i festeggiamenti siano stati sottotono.

Ora il paese si appresta a ripartire. Con quali precauzioni per garantire la sicurezza?

Quasi 4 milioni di australiani (3,7 milioni) hanno scaricato la app governativa Covid-Safe. Il Governo si baserà sul numero dei download per decidere se passare a una nuova fase e in quali termini.

Le imprese hanno dovuto interrompere l’attività? Ci sono settori molto colpiti?

L’industria manifatturiera e la grande distribuzione hanno continuato a operare, ma i piccoli negozi, la ristorazione e il turismo sono stati severamente colpiti dalla crisi da Covid-19.

E il mondo dell’istruzione?

Anche il settore dell’istruzione ha subìto ingenti danni. Sia il settore dell’istruzione secondaria sia quello universitario ricevono ingenti entrate dalle iscrizioni degli studenti internazionali, specialmente cinesi. Si tratta di un business da 39 miliardi di dollari australiani all’anno, con ricadute positive anche in altri settori. La chiusura delle frontiere con la Cina a gennaio ha impedito a molti studenti di proseguire gli studi in Australia dopo la pausa natalizia. I danni per l’Università di Sydney, ad esempio, sono stimati in 470 milioni di dollari per il 2020. La Monash University di Melbourne ha annunciato minori entrate per 350 milioni di dollari, di cui 220 milioni causati dal calo delle iscrizioni. E questo accade in una situazione già difficile per il mondo universitario. Il governo australiano tradizionalmente dedica solo l’1,8% del Pil a sostegno della ricerca universitaria, a fronte di una media Ocse del 2,38 per cento.

Tutte le scuole dell’obbligo sono state chiuse? E quando potranno riaprire?

Il sistema dell’istruzione in Australia è prevalentemente in mano ai privati. A differenza di altri Paesi, l’Australia ha permesso alle scuole dell’obbligo di rimanere aperte, per permettere ai genitori che lavorano, specialmente quelli nel settore sanitario e ospedaliero, di usufruire di questo servizio per i propri figli. Per il momento, la scuola non è stata fonte di contagio, ma la maggior parte delle famiglie ha optato per la didattica a distanza. La decisione della possibile riapertura spetta ai singoli Stati e il New South Wales, che è stato ed è tuttora quello più colpito dal Covid-19, ha deciso di riaprire tutte le scuole a partire da lunedì prossimo, anche se le regole di riapertura non sono molto chiare al momento. Al contrario, nello Stato del Victoria le scuole restano chiuse. Il governo spinge per una riapertura completa delle scuole e dei campus universitari, al massimo a partire dal secondo semestre, che in Australia inizia a luglio.

In Nuova Zelanda la premier Jacinda Ardern ha dichiarato che la battaglia contro il Covid-19 è stata vinta. Come è stato possibile?

Il Paese, che conta 5 milioni di abitanti, ha avuto 1.200 casi e 20 morti e ora ha annunciato di aver vinto la battaglia contro il virus. All’apparizione dei primi casi il 28 febbraio, la strategia della Nuova Zelanda è stata test a tappeto, chiusura delle frontiere e adozione di misure di auto-isolamento molto restrittive, molto più severe di quelle australiane. È stato un piano molto coraggioso, che ha portato all’appiattimento della curva del contagio. Tuttavia, dicono gli esperti, l’esempio neozelandese può difficilmente essere esportato. Si tratta di una nazione piccola, ricca, dai conti pubblici in regola, con un buon welfare, lontana dal resto del mondo e con una piccola popolazione sparpagliata su una superficie grande quanto l’Italia.

(Marco Biscella)

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