“È l’irruzione di un imprevisto totale. Il coronavirus ci sta costringendo a pensare, ma con un dubbio: quello di non riuscire a capire” dice Fausto Bertinotti, segretario di Rifondazione comunista (1994-2006) e poi presidente della Camera. L’Europa di Maastricht è morta, secondo Bertinotti, perché la politica dell’austerità e del pareggio di bilancio può solo produrre povertà e diseguaglianze. Servono gli eurobond, prima occasione di dare agli Stati europei una responsabilità comune.



Si rischia di non capire, lei dice. Proviamoci lo stesso.

Ammesso che sia possibile parlare di questa vicenda sospendendo il dramma di tante vite umane perdute, che cosa resta, mi chiedo?

E che cosa risponde?

Una immensa lente di ingrandimento sui mali del nostro tempo. Forse potremo fraintendere quello che ci circonda, ma non potremo nasconderci. Prenda la sanità.



È stata investita da un grande processo di privatizzazione. È qui che vuole arrivare?

C’è indubbiamente questo, ma non ci si può fermare al fatto che una parte della sanità pubblica è diventata privata. La salute pubblica non è più un bene prioritario perché la vita stessa è diventata merce. Gli affari del settore farmaceutico e l’ospedalizzazione sono solo conseguenze.

Cosa pensa davanti ai bollettini della Protezione civile?

Penso a tutte quelle persone che il virus conferma nella loro condizione di invisibili. Chi è considerato uno scarto, per dirla con papa Francesco, viene investito dalla malattia e dalla morte senza alcuna protezione.



L’Unione Europea sta dimostrando la sua inadeguatezza e la sua impotenza. Riuscirà a sopravvivere?

La lente del virus ha messo a nudo la verità dell’Europa reale: questa Europa è stata plasmata dai processi economici liberisti. È l’Europa del mercato e lo sapevamo. Non ha una costruzione costituzionalmente fondata e politicamente attendibile.

Di conseguenza?

È distrutta alla radice la possibilità politica e culturale di rappresentarsi come una entità solidale. L’Europa di Maastricht è quella del bilancio in pareggio come paradigma di guida dell’azione pubblica ed economica: se c’è solo il mercato, ci sarà un’Europa dei forti e un’Europa dei deboli. E cioè non ci sarà l’Europa.

Ch cosa sta accadendo oggi negli organismi europei?

Lo stato di necessità porta chi li governa a sospendere temporaneamente i meccanismi che regolano le politiche di austerità dell’Europa reale. Sia chiaro: per ragioni di sopravvivenza del sistema economico, non per consapevolezza della profondità della crisi.

E non è un bene che vengano sospesi?

Si allenta il dominio del paradigma anti-debito sulla possibilità di scegliere come costruire la società. Contemporaneamente, però, è preclusa l’unica mossa che potrebbe significare un cambio di passo: quegli eurobond che, mutualizzando il debito, darebbero un destino comune agli Stati europei.

Gli eurobond sarebbero altro debito.

Appunto! E anche l’unico modo di sottrarsi alla religione secolare tedesca del debito come colpa. Dietro il fantasma continuamente agitato di Weimar e dell’inflazione, c’è il rifiuto di mettere in comune le diverse aree economiche e culturali europee. Si preferiscono povertà, disoccupazione e diseguaglianza.

È l’ultima chiamata?

Direi di sì. Gli eurobond non sono solo interesse delle “cicale”, degli Stati del Sud Europa, ma anche della locomotiva tedesca. Se i paesi più deboli si disgregano, quelli forti a chi venderanno i loro prodotti?

Perché la Germania e i suoi satelliti vogliono il Mes a tutti i costi?

Perché non vogliono un debito comune.

Mario Draghi, ex presidente della Bce, ha criticato il dogma del debito. Impossibile non farvi ricorso, proprio come durante le guerre.

Diffido della metafora della guerra, che non è una buona ragione per fare debito, mentre lo è la lotta alla malattia. Per il resto ha ragione: si usi il debito per finanziare la ricostruzione. Non solo, però.

Che cosa intende?

Contrastare qualunque malattia della società, dalla disoccupazione alla povertà, è una buona ragione per fare debito. Quello di Draghi è un intervento lungimirante, ma è interno al sistema.

Dove sbaglia?

Confida nella capacità adattativa del capitalismo, non propone di usare il debito per trasformare la società. Ma oggi è questo che bisogna fare, buscar el levante por el ponente. Perché l’Europa è stata quella di Maastricht? Solo per ignoranza o perché la globalizzazione dell’economia capitalistica ha spinto in questa direzione?

Quale paradigma serve?

Quello della trasformazione. Un’economia in cui il primato dell’uomo e dei suoi bisogni venga riconosciuto anche al prezzo di passare per una modificazione degli assetti di potere e dei fondamenti dell’economia.

Come giudica l’operato del governo italiano in questo frangente?

Una premessa: questo governo nasce nel contesto di una sostanziale crisi della democrazia ed è figlio della paura dell’avversario. Non è il risultato di una strategia, di un programma, no.

Con quali conseguenze?

È un governo figlio della cosiddetta governabilità. La volontà di fare questo governo ha selezionato le forze politiche che lo sostengono e non il contrario. Di fronte a un evento imprevisto e drammatico, e a un compito immane, lo stato di necessità si è progressivamente realizzato.

E adesso cosa c’è, a suo giudizio?

Il rapporto tra medicina e politica ha finito per attribuire al governo una condizione assolutamente a-democratica.

Un golpe?

No, piuttosto una malattia della democrazia. La politica sì è medicalizzata, la medicina si è fatta politica. L’esecutivo è l’alfa e l’omega della politica.

Una tornata elettorale potrebbe essere la cura?

Adesso, in queste condizioni, è impossibile.

Ma domani sì?

Il ricorso alle urne è sempre una mano santa, ma non vorrei essere troppo pessimista dicendo che il deficit politico è enorme: una tornata elettorale basterebbe per cambiare governo, ma non per decidere verso quale società andare.

Qual è la vera sfida?

Il coronavirus ci chiede di ricostruire i fondamentali. Senza fare questo rimarremo nani in balia dei fatti, che sono i veri giganti.

Questo giornale ha avanzato l’ipotesi di una mobilitazione del risparmio nazionale. Di recente anche Giulio Tremonti ha fatto una proposta che va in questa direzione. Lei che ne pensa?

Il futuro del paese può essere affidato a una proposta tecnico-finanziaria? Per “quale” Italia si intende fare una cosa del genere? È questa idea a mancare.  Dov’è oggi il Piano del lavoro (1949-50, ndr) di Giuseppe Di Vittorio?

Era il tempo della grande politica.

Vero. Non c’era in gioco la formazione di un governo ma l’appartenenza a mondi diversi. Furono gli anni della Costituzione, poi della ricostruzione. Erano anche gli anni in cui la polizia sparava agli operai.

Come si esce dalla crisi della pandemia?

La prima leva dev’essere il lavoro. Il lavoro e la cittadinanza sociale. A chi non può pagare l’affitto, al povero che non ha più niente, all’immigrato senza cittadinanza cosa proponiamo? Si può pensare di uscire da questa crisi senza questa popolazione? Ci rendiamo conto che il virus ci ha costretti, negli ospedali, a chiederci chi curare per primi?

E l’Europa?

Per l’Europa è lo stesso: o imbocca questa strada o è morta.

(Federico Ferraù)

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