Un ritratto di uomo, a testa alta, con le braccia conserte, e lo sguardo puntato lontano. È l’ultimo quadro che mi è capitato di vedere dal vero, prima che tutto chiudesse. Era esposto alla mostra di Palazzo Reale a Milano che presentava una selezione di opere del Guggenheim di New York (per la precisione della collezione Tannhaüser, poi donata al museo americano). Quel quadro era il primo della mostra, ma ricordo che mi aveva fatto una tale impressione da averlo voluto vedere di nuovo, facendo a ritroso il percorso e uscendo dall’entrata.
Quel quadro è un capolavoro di Paul Cézanne, datato 1899: “L’homme aux bras croisés”. Non si sa chi sia il soggetto. Il figlio dell’artista disse che si trattava di un orologiaio parigino, ma non si sono mai trovate conferme. Certamente, con il suo abbigliamento, rivela un profilo sociale diverso dai contadini che abitualmente posavano per Cézanne ad Aix, la sua città natale, dove sarebbe morto nel 1906. Venne dipinto nello studio parigino di rue Hégésippe-Moreau, come si evince dalla tavolozza e dalle tele appoggiate sulla sinistra.
Se c’è una caratteristica che definisce la grandezza di Cézanne è quella di essere un artista che qualunque cosa affronti, si proietta sempre in una prospettiva biblica. Ed ha qualcosa di biblico anche questo ritratto, per quanto sia il ritratto di un borghese parigino. L’uomo dalle braccia conserte ha infatti un che di pacato e insieme di risoluto. Non lascia nessuna concessione agli estetismi. Sta con la schiena ben eretta, e con lo sguardo sembra operare determinatamente uno strappo: sposta il centro via da sé stesso e anche dal quadro. Sta guardando oltre, nella consapevolezza di tutte le battaglie che in quell’oltre si prospettano. È forte, come dimostra quel gesto un po’ sfidante di tenere le braccia conserte.
Ma la sua forza è data soprattutto da quella fermezza morale che lascia trasparire. Non è una forza espressa dalla solidità della posa (Cézanne è artista sommamente inquieto, nel ritratto lascia tante incertezze); è una forza che scaturisce da dentro, da una consapevolezza da cui è stato come investito. Non è un caso che il Nobel Peter Handke, folgorato da questo quadro ad una mostra parigina nel 1978, scrisse che avrebbe voluto farne un eroe di un suo romanzo.
L’uomo senza nome di Cézanne è un avamposto. Un avamposto che scavalca il tempo e si presenta come contemporaneo a noi. Per lui potrebbero valere le meravigliose parole che Charles Péguy dedicò alla figura del padre di famiglia: “Lui non solo è coinvolto dappertutto nella città presente. Dalla famiglia, dalla sua razza, dalla sua discendenza da quei bambini è coinvolto dappertutto nella città futura, nello sviluppo ulteriore, in tutto il temporale accadere della città”.
È l’uomo che senza dirci una parola ci mette davanti all’unico atteggiamento che occorre per il domani, quando ci saremo lasciati alle spalle non solo l’incubo del virus ma anche le macerie morali e materiali del “mondo di prima”. Ci dice di una necessità di un nuovo inizio, di una determinazione a ricostruire innanzitutto le nostre coscienze, di un coraggio che sappia spazzare via i mezzi piaceri e il narcisismo del passato. Ci dice anche che ci sarà da lottare. Ora capiamo che se l’uomo senza nome di Cézanne ha quell’atteggiamento un po’ sfidante, è perché davvero ci sta lanciando una sfida.