Immaginiamo che la nazione X abbia l’esigenza di governare l’economia mondiale e che sia una società disciplinare, cioè un paese che costruisce istituzioni, ospedali, scuole, università, industrie, carceri e manicomi per controllare tutte le attività in essere dei propri membri. Effettivamente quest’ordine funziona molto bene: gli individui che lo compongono sono corpi docili, obbedienti, lavoratori e sempre vigilati dalla visione panoramica di uno Stato “Big brother”.



Immaginiamo, poi, che l’ordine di questa società sia minacciato dalla “rivoluzione della luce elettrica”. Mi spiego meglio: la luce elettrica illumina tutto ed elimina il giorno e la notte, estende i tempi di lavoro indefinitamente e fa in modo che la produzione diventi continua, affinché l’uomo possa concentrare le proprie energie sul prodotto e non sulla produzione. Non vi è più bisogno di un capitalismo di produzione, come diceva Gilles Deleuze nel suo Poscritto sulle società di controllo: “è un capitalismo di iperproduzione […] compra prodotti finiti o assembla pezzi staccati. Vuole vendere servizi e vuole comprare azioni […] Pertanto è essenzialmente dispersivo, e la fabbrica ha ceduto il posto all’impresa”. Si tratta di gestire le operazioni sul prodotto, distribuirlo e commercializzarlo a qualsiasi ora e in qualsiasi parte del mondo: la merce dev’essere sempre disponibile online, visibile sotto i riflettori della luce elettrica.



Adesso immaginiamo che la nazione X concentri nelle sue mani la maggior parte della produzione di merci del mondo, e che deleghi la loro distribuzione, almeno inizialmente, ad altri paesi. X guadagna sulla produzione e gli altri paesi guadagnano sul prodotto, sui servizi che generano a partire dal prodotto, come fa Amazon, ad esempio.

Ad un certo punto, X decide di competere nell’offerta di servizi con gli altri paesi assemblatori e distributori di prodotti, e si rende conto che per controllare la distribuzione delle merci nel mondo, deve controllare il Web. Ma la rete non si lascia controllare con la violenza: essa rifiuta il controllo del “Big brother” tipico delle società disciplinari, e accetta unicamente l’autocontrollo dei “Big data” che caratterizza le società occidentali in cui viviamo. Per funzionare, la rete ha bisogno di profili docili e obbedienti che condividano i propri dati personali: ha bisogno di sapere se ci è piaciuto o meno un certo ristorante per proporci l’acquisto di nuovi prodotti ad esso relazionati. Allora noi utenti concediamo le nostre informazioni personali e la rete prolifera, genera mercato e, se non abbiamo disponibilità liquida immediata per gli acquisti, ci offre anche la possibilità di indebitarci e comprare con tranquillità. In qualche modo, poi pagheremo.



Per farla breve, X ha capito che per controllare l’economia mondiale non basta avere una straordinaria forza di produzione, ma bisogna anche controllare le operazioni sui prodotti e sugli individui che si sono “autoprofilizzati”. Ma soprattutto X sa che può governare senza violenza e senza guerra attraverso il Web, perché “the medium is the massage”, direbbe Marshall McLuhan: chi controlla il mezzo, massaggia le menti.

Ma come fare a convincere gli utenti di Amazon a usare Alibaba? O come fare a superare i pregiudizi sui vendor extraeuropei e costringere l’Italia a usare la rete 5G di Huawei come Core Network in tutto il paese?

Una soluzione c’è: X potrebbe decidere di distruggere l’economia reale dei paesi che vuole controllare, costringendoli a indebitarsi fortemente, per offrirgli infine soluzioni rispetto alla produzione e ai servizi.

Come controllare produzione e servizi? Attraverso il debito e la tecnologia. Bene! Ma come scatenare la crisi e “proporre” la propria medicina, il proprio “totalitarismo digitale” come soluzione unica? Una guerra? Terrorismo e “anni di piombo”? I metodi menzionati sono troppo visibili e presuppongono una possibile rintracciabilità dei responsabili.

E se invece i responsabili della crisi fossero gli individui stessi? Qui sta la genialità: se ogni individuo fosse portatore di un virus mortale e fonte di panico per gli altri, nessuno e tutti sarebbero i responsabili invisibili di questa perniciosa pandemia. A parte i morti, il terrore, i danni economici e la povertà reale generati dalla situazione, a quali conseguenze strutturali e permanenti porterebbe una tale diffusione del virus?

In sintesi: smart work, smart business e smart city. Ci vuole un virus all’altezza, uno smart virus che ci costringa a lavorare, a comprare e a comunicare con i nostri cari esclusivamente in rete e da casa. Ci vuole un virus che si diffonda in modo intelligente, inizialmente impercettibile e capace di modificare profondamente la struttura della nostra società.

Una società che per esistere ha bisogno di una rete potente e intelligente, una rete 5G adeguata alla “rivoluzione elettrica” senza ritorno che già stiamo vivendo. Tutto accade nella logica tecnologica delle cose, apparteniamo sempre di più all’“infosfera”, e sembra realizzarsi il panorama che il filosofo sudcoreano Byung Chul-Han profetizza quando afferma che la vita online disintegra la funzione delle piazze come luoghi d’incontro e ci condanna ad essere “finestre affacciate su altre finestre”.

Ma allora, come si fa a sopravvivere allo tsunami provocato dallo smart virus? Qualche paese ce la fa! “La Cina è riuscita a reagire bene anche con il contributo delle tecnologie (intelligenza artificiale, big data)”, dice in un’intervista a DigitEconomy.24 il presidente del gruppo Huawei Italia, Luigi De Vecchis. La Cina è stata pesantemente colpita, si è ripresa e adesso aiuta l’Italia e le offre soluzioni hi-tech per resuscitare dalla crisi. Continua De Vecchis: “un contributo alla lotta contro il coronavirus. Lo propone, in questi giorni drammatici per la vita del Paese, Huawei Italia, mettendo sul piatto, oltre alla donazione di una serie di apparati di protezione, la possibilità di collegare in cloud gli ospedali italiani tra di loro, comunicando con le unità di crisi. […] L’epidemia metterà in difficoltà enormi le imprese, e noi non siamo immuni. Cerchiamo però di confrontarci, con l’obiettivo di mantenere una presenza forte nel Paese”.

A ben vedere, si tratta di “una offerta che non si può rifiutare”. Se saremo docili e lasceremo entrare la tecnologia 5G cinese nel nostro perimetro cibernetico e se le permetteremo di essere “una presenza forte nel paese”, potremo fermare l’epidemia e, chissà, in futuro potremo perfino risolvere il debito a cui il virus ci sta costringendo. In fondo, il nostro Leviatano è buono: ci vuole controllare in cambio di sicurezza e promette anche di darci, un giorno, le chiavi delle catene del terrore a cui ci lega oggi. Ma ha bisogno della nostra complicità, che in maggior o minor misura, siamo propensi a concedergli per sfuggire al clima di panico insopportabile in cui siamo immersi.

Naturalmente, questa raccontata è solo una storiella fantastica. Ma se fosse uno scenario possibile, cosa ci può salvare da questa prevedibile catastrofe? “Ormai, solo un dio ci può salvare”, risponderebbe Martin Heidegger. Nell’“ora più buia” mi ha impressionato guardare alcuni video in cui gli italiani si affacciavano ai loro balconi per cercare un contatto, a distanza, con i propri vicini e cantare insieme una canzone, l’inno nazionale o semplicemente per ascoltare una musica che qualcuno diffondeva.

Ecco, appena ho visto tutto questo, ho percepito un fremito di libertà nel vedere che nemmeno “l’ora più buia” è in grado di strapparci quell’allegria che è la fibra del nostro popolo. E poi c’è l’applauso dalle finestre a medici, infermieri e personale sanitario che va in ospedale a combattere una guerra senza odio, perché il nemico non è qualcuno lì fuori contro cui ti puoi scagliare. Non c’è nessuno contro cui lamentarsi, nessuno da insultare: c’è solo una crisi da accettare con dignità, ironia e cercando di non farsi strappare l’ultimo e tenace filo di letizia rimasto. Da casa o in ospedale, ciascuno combatte una guerra con se stesso per decidere in ogni momento se vale la pena continuare a sperare o lasciarsi andare.

D’accordo, la crisi che stiamo vivendo mette in evidenza la trasformazione sociale in atto e le sue contraddizioni, ma al contempo lascia intravedere un’unità di popolo che non si vedeva da tempo: proprio nell’“ora più buia” si vede meglio l’accendino del vicino.

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