Caro direttore,
ha ragione il Presidente della Repubblica a chiedere agli italiani “unità” davanti all’emergenza coronavirus. Idem il governatore della Lombardia, Attilio Fontana, quando raccomanda di evitare polemiche. Però non è più neppure il momento dei fake, che sarebbero comici se non fossero invece potenzialmente tragici. 



È un fatto che gli italiani abbiano creduto per quarantott’ore a una narrazione sul “paziente zero” poi rivelatasi falsa. Ed è un altro fatto che quel fake raccontava come il presunto portatore sano del virus fosse giunto in Italia prima che si levassero sollecitazioni a rafforzare i controlli sanitari in entrata nel Paese. Una difesa politica pur minima per il governo. Ma era un fake.



Un altro fatto per nulla banale è emerso solo ventiquattr’ore dopo il primo decesso di un italiano in Italia. L’epicentro del focolaio veneto sarebbe – ma nessuno sta ancora confermando nulla – un bar in cui l’anziano di Vo’ Euganeo avrebbe incrociato la sera del 9 febbraio otto cinesi, di cui uno avrebbe manifestato sintomi sospetti. I primi test su questi ultimi, a quanto risulta, sarebbero stati negativi: ma non si hanno notizie di indagini approfondite, soprattutto sugli spostamenti dei cinesi. Sia chiaro: se anche emergesse che è stato uno di loro a portare il coronavirus in Italia, non sarebbe minimamente responsabile di nulla. Anzi: quel residente regolare cinese andrebbe curato come i pazienti italiani, come i turisti cinesi assistiti con successo a Roma. Come i migranti della Ocean Viking posti in quarantena, fino a che il governo italiano in carica autorizzerà questi sbarchi. 



Sarebbero invece gravemente responsabili, su ogni piano, coloro che avrebbero dovuto valutare e decidere su test a tappeto e quarantene sistematiche e – con crescente verosimiglianza – non l’hanno fatto. E peggio sarebbe se le decisioni politico–amministrative fossero state prese in modo non coerente con le analisi e le valutazioni tecniche. 

È, non da ultimo, un fatto incontrovertibile che i focolai sono divampati al Nord: in quelle Regioni che avevano chiesto al Governo di alzare la guardia dei controlli sugli ingressi. E in risposta i governatori hanno ricevuto l’accusa di fomentatori di odio razziale e xenofobo. L’esito visibile della querelle è che il governo italiano continua a tenere apertissimi porti e frontiere nazionali mentre ha chiuso da un’ora all’altra le frontiere comunali attorno a 50mila lombardi. Sono stati attivati 43 posti di blocco militari “antisperonamento” a guardia di un cordone sanitario che nei dintorni di Milano forse non si vedeva dai tempi della peste manzoniana: e se qualcuno da fuori volesse “soccorrere” un parente all’interno della zona rossa cosa ne penserebbe la Corte di Cassazione che ha confermato il buon diritto della “Capitana Carola”?

 

Nel frattempo Massimiliano Fedriga – governatore del Friuli-Venezia Giulia, Regione a statuto speciale – ha detto di aver sondato il governo sul possibile rafforzamento dei controlli all’ingresso delle frontiere con Austria e Slovenia. Da Roma, ha affermato sabato sera Fedriga, gli è stato risposto che finora non è previsto alcun cambiamento. Ci ha pensato il cancelliere austriaco Sebastian Kurz – a capo di un nuovo governo fra Popolari e Verdi – a “cambiare” in fretta: rischierando virtualmente sul Brennero i panzer già utilizzato come muro contro i migranti sbarcati in Italia (a proposito: qualcuno ha notizie del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio?).

Lo stesso governatore (Pd) della Puglia Michele Emiliano – un magistrato – ha pensato di rialzare confini regionali interni verso il Nord: il ministro degli Affari regionali Francesco Boccia (Pd pugliese) non ha nulla da dire? L’autonomia rafforzata chiesta da Veneto e Lombardia dopo referendum popolare può attendere mentre la Puglia può imporre autonome misure di polizia sanitaria? Se il governatore Michele Emiliano può tornare alla governance borbonica delle epidemie di colera, il collega Luca Zaia potrebbe ripristinare la fiscalità della Serenissima.

Nel frattempo le cifre confermano un quadro di estrema gravità, mentre l’Organizzazione Mondiale per la Sanità – un’agenzia dell’Onu, non un social hater – tratta l’Italia (Paese membro del G7 e fondatore della Ue) con toni normalmente riservati a Paesi del Quarto mondo. 

Dopo tre giorni di epidemia i contagiati in Italia sono già a tre cifre: ufficialmente più che a Hong Kong, Singapore, Thailandia. Più che in India. In assenza di informazioni sull’Africa, l’Italia è il Paese non asiatico a registrare un impatto-coronavirus paragonabile a quello di una regione adiacente al “cratere” di Wuhan. Negli Usa (trenta volte più vasti e più di cinque volte più popolati dell’Italia) a un mese dalla dichiarazione d’emergenza globale, i casi ufficiali sono 35 con 1 decesso. In Francia, almeno ufficialmente, l’unico focolaio accertato (12 sciatori di una località alpina frequentata da un inglese di rientro da Singapore) è stato circoscritto con un solo decesso.

La vera evidenza ultima – a prova del tenace negazionismo in cui è impegnata anche in queste ore la macchina social Palazzo Chigi – appare la miscela venefica di incompetenza e irresponsabilità nella stanza dei bottoni del Paese. Ed è un governo – il Conte 2 – che salvo svolte al momento non prevedibili affronterà nei prossimi giorni e settimane una crisi drammatica, che al Paese poteva probabilmente essere evitata e alla cui escalation non sembra affatto estranea l’inadeguatezza del premier e dei suoi ministri, fin dal primo giorno.

Se un pilota sbaglia ripetutamente decolli, rotte, atterraggi, una compagnia aerea seria lo mette fuori servizio e lo sostituisce: non gli lascia la cloche dei suoi velivoli. E invece in Italia non manca chi già vede nell’epidemia di coronavirus un fortunoso puntello alla stabilità di un esecutivo fra i più deboli e screditati della storia repubblicana.

Il Paese non può permettersi un premier in scarpe da tennis nella mensa dell’Ilva e poi, alla bisogna, con la felpa della Protezione Civile (la stessa che veniva puntualmente rinfacciata a Matteo Salvini). Aver disertato la messa di Papa Francesco a Bari è stato, da parte di Conte, un gesto d’opportunità minimo: forse dettato anche dalla preoccupazione di contestazioni. Ma non è certo con un accorgimento mediatico d’occasione che il premier può recuperare una credibilità e un senso di responsabilità che non ha mai avuto, né ha mai potuto avere per il semplice motivo che gli italiani non lo hanno mai legittimato al suo ruolo.  La “sorpresa” dichiarata ieri da Conte – indugiando in un salotto televisivo domenicale invece di fare il suo lavoro a Palazzo Chigi – ha aggiunto solo un particolare grottesco. Un comandante in capo “sorpreso” (e sconfitto) se ne va subito. Un secolo fa il generale Cadorna provò a rimanere al suo posto dopo il disastro di Caporetto, rovesciando le accuse sui suoi soldati: ci pensò il capo dello Stato allora al Quirinale a cacciarlo due settimane dopo. Per un motivo elementare: l’esercito non avrebbe mai resistito sul Piave e sul Grappa con un comandante in cui aveva completamente perso la fiducia.

Non ha torto il presidente Mattarella quando richiama il valore dell’“unità nazionale”: oggi come non mai l’Italia sembra aver letteralmente bisogno di un governo “di salute pubblica”.

Nei giorni scorsi era già circolato il nome del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, fino ad agosto prefetto di Milano, per un possibile governo “del Presidente” di avvicinamento ad un voto anticipato. Sembra in effetti un nome adatto (anche se non è l’unico possibile) per il pilotaggio un esecutivo tutto composto di tecnici qualificati. Almeno fino a quando sarà dichiarata finita l’emergenza coronavirus: potenzialmente peggiore di quella dello spread nel 2011 anche per l’economia italiana. A settimane – se non mesi – di blocco della macchina produttiva nelle regioni-traino del Nord seguira’ prevedibilmente una stagione turistica che appare già seriamente compromessa in tutta la penisola. Le prime stime Bankitalia sull’impatto (-0,2% di Pil) sembrano così verosimilmente approssimate per difetto.

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