Quanto serve all’Italia affinché dopo la pandemia non arrivi la carestia? A questa domanda nessuno ha ancora dato una risposta, né gli economisti, né i banchieri, né l’opposizione, né il Governo. Invece è arrivato il momento di fare chiarezza, guardando a quel che stanno facendo gli altri Paesi. Questa settimana dovrebbe essere varato un nuovo provvedimento, si parla di altri 25 miliardi o giù di lì. Ma non si può andare avanti a spizzichi e bocconi. Se guardiamo agli Stati Uniti e alla Germania, entrambi hanno varato interventi economici pari grosso modo al 10% del loro prodotto lordo tra interventi diretti e indiretti. Anche la Francia, che finora non ha fatto molto, vorrebbe muoversi sulla stessa lunghezza d’onda. La Spagna pensa di arrivare al 20% con 200 miliardi di euro (117 miliardi dallo Stato e il resto da risorse private). Con 50 miliardi di euro l’Italia starebbe a poco meno del 3% del Pil. Basta?



Secondo le proiezioni di Prometeia l’Italia perderà quest’anno il 6,5% del prodotto lordo, per Goldman Sachs si arriverà a oltre il 12%. Facendo una media a occhio possiamo prevedere senza troppo sbagliare un 10% in meno anche per noi. Dunque, è questa la massa di manovra che in soldoni significa tra 170 e 180 miliardi di euro. Sarebbe opportuno ammetterlo e spiegare come impiegare le risorse che sarebbero per lo più a debito. In Germania la quota principale dei 360 miliardi di euro annunciati (156 dei quali aumentando il debito pubblico) sarà destinata a tamponare la caduta della domanda, il resto a sostenere l’offerta, utilizzando anche la KfW (versione tedesca della Cassa depositi e prestiti) ricapitalizzata con circa 100 miliardi di euro per sostenere soprattutto il Mittelstand, cioè il tessuto di piccole e medie imprese che è anche il nucleo duro del Modell Deutschland. Il fondo di stabilizzazione economica, grazie all’effetto leva, potrebbe mobilitare 600 miliardi di euro.



Una volta deciso con chiarezza, guardando avanti di almeno un anno, che cosa fare, vedremo ciò che possiamo ottenere dall’Unione europea, la quale per la verità ha già allargato i cordoni della borsa: il Patto di stabilità è sospeso, dunque c’è la possibilità di aumentare il deficit pubblico ben oltre il 3%; inoltre la Banca centrale europea ha detto che comprerà titoli pubblici e privati senza limiti. È vero, esiste ancora il cosiddetto capital key, cioè l’acquisto è in rapporto alla quota che ciascun Paese possiede della banca, l’Italia ha il 17%, se entro la fine dell’anno il Quantitative easing impiegasse quel che è stato già deciso, cioè poco più di mille miliardi di euro, oltre la metà delle nuove emissioni di titoli sarebbe in pancia alla Bce. Il resto andrebbe diviso tra il mercato internazionale, le banche e gli investitori privati italiani. Se poi davvero l’acquisto fosse illimitato il capital key perderebbe rilevanza.



Le banche, dopo la direttiva della Bce utilizzeranno i dividendi (cospicui per gruppi come Intesa e Unicredit) allo scopo di rafforzare il patrimonio, così avrebbero spazio per comprare altri titoli di stato. I risparmiatori italiani potrebbero essere incentivati dall’emissione di titoli speciali (chiamiamoli Corona Btp) a lunga scadenza e con la garanzia di non perdere il capitale. Resta l’incertezza dei mercati esteri, ma con questo schema la loro quota non sarebbe tale da creare un nuovo rischio default tipo 2011-2012.

È giusto che il Governo faccia tutto il possibile per strappare un impegno a mettere in comune una parte del nuovo debito (emesso per far fronte alla emergenza sanitaria ed economica, non per la spesa corrente), sia attraverso nuovi bond europei, sia utilizzando le risorse della Banca europea degli investimenti, tuttavia questo non può impedire di fare, qui e subito, quel che è necessario. Giuseppe Conte ha detto “andremo avanti da soli”, brandendolo come una minaccia. In realtà, è quasi ovvio che si debba andare avanti per la nostra strada, quella che (lo speriamo) ci allontana dal baratro.

Decisivo è capire come verranno sostenute le imprese perché è da qui che verrà la possibilità di non perdere il lavoro. Il Governo si è mosso soprattutto con la leva fiscale, rinviando le imposte. Realisticamente sarà necessario prevedere una restituzione a rate. Molti, in particolare dall’opposizione, propongono di cancellare le tasse dovute quest’anno, coprendo il buco con altro debito. Le entrate tributarie ammontano a circa 471 miliardi di euro (252 miliardi come imposte dirette). È un ammontare enorme, il debito salirebbe di quasi il 25% in un colpo solo. Ciò potrebbe innescare una spirale perversa: solo l’annuncio farebbe compiere un balzo all’in su allo spread tale da mettere in discussione la sostenibilità del debito italiano. Il debito aumenterà e di molto, sia chiaro, ma la condizione è che i tassi d’interesse restino bassi, altrimenti sarà inevitabile chiedere aiuto al Fondo salva-Stati. A quel punto verrebbero imposte condizioni durissime, molto peggiori di quelle proposte al Consiglio europeo di settimana scorsa.

Ci sono anche altre possibilità che non vengono dalle tasse, ma dal sostegno alle attività. La prima riguarda prestiti a interesse zero da parte delle banche, contrattando una restituzione diluita nel tempo. La seconda passa attraverso la garanzia pubblica del fatturato che verrebbe a mancare. Èuna idea che si sta discutendo in Francia e in Italia è stata lanciata dal finanziere Giovanni Tamburi su Milano Finanza. Il vantaggio è che una parte dell’esborso verrebbe recuperato attraverso le imposte una volta rimessa in moto l’attività. È realizzabile? Può funzionare? Vale la pena discuterne invece di affannarsi soltanto a divinare come potrebbero essere emessi eurobond che, al punto in cui siamo, sembrano davvero un pio desiderio.

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